Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 168

Testo di pubblico dominio

Credo che se ci avesse abbrancati saremmo rimasti stritolati. Io mi gettai davanti all'Aglaura e feci schermo del mio corpo a quel briaco furore. Allora egli si riebbe dall'improvviso delirio, gli si incolorò la fronte d'una rabbia quasi infernale, e aperse le labbra a parlare, ma gli morì nelle fauci la voce. Vidi che un grande castigo pendeva allora da quelle labbra, e per sopportarlo aveva ristretto ogni mia forza intorno al cuore: ma egli finì col mordersi le mani, volgendo sopra di noi un'occhiata insieme di compassione e di scherno... — E se... — aveva egli cominciato a dire come rispondendo a un interno sospetto che non andò più innanzi, e subito le sue sembianze si ricomposero, il pallore gli si stese sul volto, le membra cessarono di tremare; tornò insomma uomo, fin'allora sembrava proprio una fiera. Tutti questi particolari mi rimasero fitti in capo tanto per ordine, dacché tutta la notte seguente altro non feci che volgerli rivolgerli e commentarli per indovinare da essi le tremende e misteriose passioni che agitavano l'animo di Spiro. Mi sembrava impossibile che lo sdegno d'un fratello dovesse scoppiare così bestiale e violento. Dopo avere racquistato quella calma, almeno apparente, il giovine greco sedette in mezzo a noi; e ben accorgemmo lo sforzo da lui fatto per rimanere, ma non osammo rimproverarglielo. Egli ci spiava ambidue con occhio furtivo, e di volta in volta la compassione l'abbattimento e un ultimo resto di rabbia alternavano i loro colori sulle irrequiete sembianze. Ci narrò allora che la mancanza di lettere da parte di suo padre proveniva da questo ch'egli avea dovuto partire precipitosamente per l'Albania e per la Grecia donde non era tornato peranco. — E così — soggiunse egli — è così, Aglaura, voi non volete seguirmi a Venezia ove rimango solo, senza felicità e senza speranza? — No, Spiro, non posso seguirvi — rispose la giovinetta chinando gli occhi sotto gli sguardi infiammati del giovine. Spiro mi guardò ancora, che se la sua occhiata non mi divorò fu proprio perché non la poteva: indi si volse ancora alla fanciulla. — Che speranza mai vi mena ora pel mondo, Aglaura!... Per carità, ditelo!... finalmente ho diritto di saperlo!... Son vostro fratello! Queste ultime parole gli stridevan tanto fra i denti che le intesi appena. — Ditemi se avete legami di affetto o di doveri — continuò egli. — Vi giuro che vi aiuterò a santificarli. (Qui un nuovo stridore, ma più tormentoso e diabolico di prima). — No, non ho nulla! — rispose con voce semispenta l'Aglaura. — E dunque perché non mi segui? — le domandò Spiro, rizzandosi dinanzi a lei come il padrone dinanzi ad una schiava. — Temo che voi lo sappiate!... — disse l'Aglaura lasciando cadere una ad una queste parole sull'ira di Spiro già pronta e rinfiammarsi. E infatti ottennero l'effetto di calmarlo ancora. Egli volse per la stanza uno sguardo lungo e indagatore; indi partì dicendone che il domani ci avrebbe veduti e che tutto in un modo o nell'altro sarebbe finito. Allora, per quanto io supplicassi l'Aglaura perché mi chiarisse alcune parti del dialogo che non giungeva a comprendere, mi fu impossibile cavarne una sola parola. Piangeva, si stracciava i capelli, ma non voleva confessarsi d'una sillaba. Un poco sdegnato un po' impietosito io mi ritirai nella mia stanza, ma non mi venne fatto di pormi a giacere, e una tormentosa fantasticaggine mi tenne alzato fin dopo mezzanotte. Allora sentii picchiare alla mia camera e credendo che fossero ordini del mio capitano dissi stizzosamente che entrassero. La camera dava sulla scala e m'avea dimenticato di dare il chiavistello alla porta. Con mia somma meraviglia, invece d'un soldato rividi Spiro: ma così cambiato in un paio d'ore, che non mi sembrava più lui. Mi pregò umilmente di perdonargli le furibonde escandescenze di prima; e mi supplicò per quanto avevo di più sacro che mi adoperassi presso alla Aglaura per ottenergli del pari il perdono. Davvero ch'io ci perdeva la testa, ed egli finì di farmela perdere, gridando cogli occhi sbarrati che egli l'amava e che non poteva più trattenersi. — L'amate? — gli risposi io — ma mi pare che siate perfettamente in regola! Non siete dello stesso sangue, figliuoli degli stessi genitori?... Amatevi dunque, che Dio vi benedica! — Non mi comprendete, Carlo — soggiunse Spiro. — Or bene, mi comprenderete ora! Aglaura non è mia sorella; essa è figliuola di vostra madre; voi siete suo fratello!... Allora un lampo subitaneo rischiarò il buio dei miei pensieri, ma stava appunto per domandar spiegazioni di questo straordinario viluppo quando l'Aglaura, avendo udito quelle parole pronunciate a voce alta da Spiro, si precipitò nella stanza e addirittura nelle mie braccia, piangendo di consolazione. — Lo sentiva — diceva ella — lo sentiva e non osava pensarlo! Smarrito, confuso, non sapendo cosa credere, ma commosso fin nel profondo del cuore io stringeva sul mio seno la faccia lagrimosa dell'Aglaura. Avrei chiesto dopo schiarimenti e prove; intanto godeva il supremo conforto di trovare un'anima sorella in quel mondo dove io m'aggirava desolato come un orfano. Spiro ci contemplava con un muto raccoglimento che lo dimostrava insieme e compagno della nostra gioia e pentito delle sue furie. Come poi ci riebbimo da quel dolce e tenerissimo sfogo, egli ci narrò che mia madre avea mandato l'Aglaura al padre suo dall'ospedale ove l'avea partorita ed era morta pochi giorni dopo. Mio padre, avuta contezza di ciò, avea scritto da Costantinopoli all'Apostulos ch'egli s'incaricherebbe a suo tempo della bambina, come figliuola che la era di sua moglie; ma che la tenesse intanto per sua, onde ella non avesse a vergognare della sua nascita. — Chi avrebbe sospettato tanto amore tanta delicatezza in mio padre? — Io ne lo benedissi con tutta l'anima; e pensai che spesso fra i sassi più ruvidi e greggi s'asconde il diamante. Spiro raccontò poi le tronche parole di sua madre dalle quali avea indovinato il mistero della nascita d'Aglaura già prima di partire per la Grecia. Tornando coi sogni di quei quindici anni pel capo, vederla e innamorarsene era stato tutt'uno: ma se gli era opposto invincibile l'amore di quell'Emilio al quale senza conoscerlo aveva votato un odio immortale. L'odio si convertì in furore, e l'amore s'accrebbe di tutta la tenerezza della pietà quando avea saputo l'infame condotta, l'impostura e i tradimenti di quel giovane, di cui qualche barlume doveva essere trapelato anche all'Aglaura. — Oh sì! certo; — saltò a dire l'Aglaura — per cos'altro credete ch'io mi movessi di Venezia se non per punirlo della sua perfidia verso la patria? — Oh perché dunque mi proibivi sempre di biasimarlo? — soggiunse Spiro. — Perché? — riprese l'Aglaura con un filettino di voce. — Aveva paura di te... di te, mio fratello! — Ah! è vero! — gridò il povero giovane. — Era un infame!... Ma come comandar sempre ai proprii occhi?... Come crederti e trattarti come sorella quando sapeva che non lo eri, quando covava per te un amore antico di quindici anni e rafforzato da tutti gli stimoli della lontananza?... Perdona agli occhi miei, Aglaura!... S'essi peccarono talvolta, non ne ebbe colpa la volontà!... — Oh vi perdono! Spiro — sclamò singhiozzando l'Aglaura. — Ma se mi fossi sentita veramente vostra sorella, avrei io diffidato di quelle occhiate; lasciatemi credere che la malizia non fosse né mia né vostra, o almeno divisa per metà! Io chiesi allora a Spiro con bastevole ingenuità perché tre ore prima non ci avesse scoperto quel dolce segreto, e si fosse divertito invece a rappresentarci quella feroce scena da Oreste. Egli non sapeva come rispondere; pur finalmente si sforzò a farlo, dicendo che, dopo saputi i nuovi amori di Emilio e che la signora fuggita con essolui da Milano a Roma non era l'Aglaura, dei mostruosi sospetti gli avevano martoriato il cuore. — Qui — soggiunse egli —

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Argomenti: tre ore,    tanto amore,    sguardo lungo,    capo tanto,    lampo subitaneo

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