Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 76

Testo di pubblico dominio

nobildonna che educa e forma delle ottime madri di famiglia non è certo minore — rispose il reverendo. — Oh, padre! noi ci mettiamo poco studio. Se il Signore ce le dà belle e buone, la grazia è sua. Del resto una saggia economia, un buon ordine di casa, una buona dose di timor di Dio, e la dote della modestia sono tutti i pregi delle nostre figliole. — E lei ci dice niente, lei?... Economia, buon ordine, timor di Dio, modestia!... Ma c'è tutto qui, c'è tutto!... Sarei anche per dire che ce n'è d'avanzo; perché già il buon ordine insegna gli sparagni, e il timor di Dio conduce all'umiltà. Mi creda, signora Contessa, fossero donne cosifatte sui più gran troni della terra, ancora ci farebbero una degna figura! Il cuore della Contessa si slargò come una rosa a una lavata di pioggia. Corse collo sguardo dal buon padre Pendola alla Clara, dalla Clara a Raimondo, e da questo ancora all'ottimo padre. Questa giratina d'occhi fu come il tema della sinfonia che si apprestava a suonare. — Mi ascolti, padre reverendo — continuò, tirandosegli ben vicina all'orecchio benché monsignore di Sant'Andrea la fulminasse con due occhi di basilisco dal suo tavolino di picchetto. — Non è vero che al primo comparire del signor Raimondo, da queste parti si mormoravano contro di lui... certe cose... certe cose... La Contessa balbettava, quasi sperando che l'ottimo padre le porgesse quella parola che le mancava; ma questi stava, come si dice, in guardia, e rispose a quel balbettamento con un'attitudine di maraviglia. — La mi capisce; — continuò la Contessa — io non accuso già nessuno, ma ripeto quello che diceva la gente. Pareva che il signor Raimondo non dimostrasse inclinazioni molto esemplari... Già ella sa che a questo mondo i giudizi si precipitano; e che sovente le sole apparenze... — Pur troppo, pur troppo, cara Contessa; — la interruppe con un sospirone il reverendo — crederebbe ella che né io né lei siamo al sicuro contro questo orco maledetto della calunnia? La signora si pizzicò le labbra coi denti, e palpò se i nastrini della cuffia erano al loro posto. Avrebbe anche voluto diventar rossa; ma per ottener questo effetto convenne che la si decidesse a tossire. — Cosa dice mai, padre reverendo? — continuò ella sommessamente — la mi creda che da centomila bocche una voce sola s'accorda a celebrare la sua santità... Quanto a me poi son troppo piccola e brutta cosa perché... — Eh, Contessa, Contessa!... ella vuol burlarsi di me. Una gran dama nei tempi che corrono compera agli occhi del mondo un intero seminario di preti, ed esse sole hanno il privilegio di far parlare o in bene o in male le intere città. Quanto a noi, è troppo se degnano renderci il saluto. La Contessa, troppo boriosa per lasciar cadere un complimento senza raccoglierlo, e poco accorta per tagliar di botto tutte queste frasche inutili del discorso, andò via colla lingua dove la menava il reverendo padre, sempre allontanandosi dalla meta che s'era prefissa nel cominciare. Ma il buon padre non era un allocco; prima d'ingarbugliarsi in certi fastidi volea capire qual pro' ne avrebbe cavato, e chi era quella gente con cui doveva accomunarsi. Per quel giorno non giudicò opportuno toccar l'argomento, e barcamenò così bene che quando si alzarono dal gioco per andarsene, la Contessa narrava, credo, le sue delizie giovanili, e i bei tempi di Venezia, e Dio sa quali altri vecchiumi. Accorgendosi che era venuto il momento di partire, si morsicò un poco le unghie; ma quell'ora le era scappata via così premurosa, il buon padre l'aveva trattenuta con sì interessanti discorsi, che proprio il discorso principale le era rimasto a mezza gola. Quanto al sospettare che l'ottimo padre l'avesse condotta, come si dice, in cerca di viole, la Contessa ne era lontana le cento miglia. Piuttosto si stizzì colla propria loquacia, e fece proponimento di esser più sobria un'altra volta, e di scordar il passato per curare il presente. Ma la seconda volta fu come la prima, e la terza come la seconda; e non era a dirsi che il padre la schivasse o che dimostrasse di conversar con lei a malincuore. No, ché anzi la cercava, la visitava sovente, e non era mai il primo ad accomiatarsi, se il pranzo imbandito o l'ora tarda non lo costringevano a ritirarsi. Soltanto o l'occasione non si presentava mai di intavolar quel discorso, o il caso voleva che la Contessa se ne smemorasse, quando avrebbe potuto accoccarlo meglio a proposito. Bensì il padre Pendola non rimaneva ozioso nel frattempo; studiava il paese, la gente, le magistrature, il clero; si addentrava nelle grazie di quel signore o di quella dama; si piegava ai vari gusti delle persone per esser gradito ovunque e da tutti; soprattutto poi cercava ogni via di entrar in favore a Sua Eccellenza Frumier. Ma in questa faccenda l'andava da marinaio a galeotto; e il padre lo sapeva, e preferiva andar sicuro per le lunghe al precipitarsi sul primo passo. Dopo un paio di settimane egli diventò un essere necessario nel crocchio del Senatore. In fino allora vi avea regnato una vera anarchia di opinioni; egli intervenne ad accordare, a regolare, a conchiudere. Gli è vero che le conclusioni zoppicavano, e che sovente un epigramma di Lucilio le aveva fatte capitombolare con grandi risate della compagnia. Ma il pazientissimo padre tornava a rialzarle, ad assodarle con nuovi puntelli; infine stancheggiava tanto gli amici e gli avversari che finivano col dargli ragione. Il Senatore ci pigliava gusto in queste esercitazioni dialettiche. Egli era di sua natura metodico; e avvezzo per lunga pratica alle tornate accademiche, gli piacevano quelle dispute che dopo aver divertito qualche mezz'ora creavano se non altro un qualche fantasma di verità. Il padre Pendola riesciva a quello che egli non avea mai potuto ottenere da quei cervelli briosi e balzani che gli faceano corona. Perciò gli concesse una grande stima di logico perfetto; il che nella sua opinione era il più grand'onore che potesse concedere a chichessia. Non indagava poi se il padre Pendola fosse logico con se stesso, o se la sua logica cambiasse gambe ogni tre passi per andar innanzi. Gli bastava di vederlo arrivare: non importava se colle grucce di Lucilio, o con quelle del professor Dessalli. Sia detto una volta per sempre che quell'ottimo padre aveva un occhio tutto suo per discerner l'animo delle persone; e perciò in un paio di sere non solamente aveva capito che l'affetto del nobiluomo Frumier voleva essere conquistato a suon di chiacchiere, ma aveva anche indovinato la qualità delle chiacchiere bisognevoli a ciò. Lucilio, che in fatto d'occhi non istava meno bene del reverendo, s'accorse tantosto che gatta ci covava; ma aveva un bel che fare di schiudersi un finestrello nell'animo di lui. La tonaca nera era d'un tessuto così fitto, così fitto, che gli sguardi ci spuntavano contro; e il giovinotto si vedeva costretto a lavorare coll'immaginazione. Finalmente venne il giorno che il padre Pendola lasciò spiegare alla Contessa quel suo disegno così a lungo accarezzato. Egli avea saputo quanto gli occorreva sapere; avea preparato ciò che bisognava preparare; non temeva più, anzi bramava che la Contessa ricorresse a lui per poterle con bel garbo rispondere: “Signora mia, questo io prometto a lei, se ella promette quest'altro a me!” — Ora, domanderete voi, cosa desiderava l'ottimo padre? — Una minuzia, figliuoli, una vera minuzia! Siccome maritando il signor Raimondo colla contessina Clara, il precettore diventava una bocca inutile nel castello di Venchieredo, così egli aspirava al posto di maestro di casa presso il Senatore. La dama Frumier aveva fama di divota; egli l'aveva toccata sopra questo tasto e il tasto aveva corrisposto bene: restava alla cognata il compir l'opera, se pure voleva vedere accasata la figlia in modo tanto onorevole. Il povero padre era stanco, era vecchio, era amante dello studio; quello era un posto di riposo che gli sarebbe

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Argomenti: tre passi,    povero padre,    bocca inutile,    padre reverendo,    intero seminario

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