Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 73

Testo di pubblico dominio

interrogarmi, e correggermi, come se fossi una sua servetta!... E sì ch'io sono una contessa ed egli un cavasangue, buono al più pei miserabili e pei villani! Io sorrisi per molte idee che mi traversarono il capo a quelle parole; e seppi poi più chiaramente la cagione precisa di quella gran ira. Intanto approfittai dell'opportunità per tirar la fanciulla ad altri schiarimenti. — Sulle prime — le dissi — io non aveva capito a chi tu volessi alludere con quel tuo signor Merlo!... Infatti era un gran pezzo che non chiamavi il signor Lucilio a questo modo. — Hai ragione — mi rispose la Pisana — gli era proprio un secolo. E guarda che stupida!... Ci fu anche un tempo ch'egli mi piaceva; e massimamente a Portogruaro in casa della zia restava incantata a udirlo parlare. Caspita! come stavano mogi e attenti ad ascoltarlo tutti quegli altri signori! Io avrei dato non so che cosa per essere in lui a fare quella gran figura. — Gli volevi proprio bene — osservai io con un segreto tremore. — Cioè... bene...? — mormorò la Pisana pensandovi sopra sinceramente — non saprei... A questo punto vidi la bugia montarle a cavallo del naso; e capii che se non prima, almeno certamente allora, essa conosceva di qual indole fosse la sua ammirazione per Lucilio. Ebbe vergogna e rabbia di una tal confessione fatta a se medesima e rincarò poi sul biasimarlo per vendicarsene. — È brutto, è orgoglioso, è cattivo, è vestito come Fulgenzio! — Gli trovò addosso tutte le piaghe, tutti i peccati; e da molto tempo io non avea udito la Pisana parlare così a lungo e con tanta enfasi come in quella sua filippica contro Lucilio. Da questa banda mi tenni dunque sicuro. Ma quella virulenza stessa, se bene avessi avvisato, mi dava più cagione di timore che di fiducia in un temperamento così bizzarro ed eccessivo come il suo. Infatti, ripresa che si ebbe la usanza delle due gite settimanali a Portogruaro, la Pisana tornò a raffreddarsi verso di me e ad allocchirsi nel contemplare e nell'ascoltare Lucilio. Quei discorsi, quelle proteste in odio di lui furono come non fatte; ella tornò ad adorar quello che giorni prima avea calpestato, senza vergognarsene o meravigliarsene. Stavolta il mio dolore fu meno impetuoso ma più profondo: poiché compresi a quale altalena di speranze e di disinganni avessi affidato la fortuna dell'anima mia. Cercai di dimostrare il mio rincrescimento alla Pisana e farla ripiegare sopra se stessa a pensare cosa e quanto male faceva; ma non mi dié retta per nulla. Solamente m'accorsi che nella sua divozione per Lucilio si era anche infiltrata una dose di gelosia. Ella si era avveduta di esser posposta alla Clara, e la ne pativa acerbamente; ma per questo non s'inveleniva né contro la sorella né contro Lucilio; pareva che si tenesse contenta di amare o sicura di amar tanto, che un giorno o l'altro avrebbe dovuto avere la preferenza. Tutti questi sentimenti che le leggeva negli occhi erano ben lontani dal consolarmi. Non sapendo con chi prendermela, non con Lucilio, perché non s'accorgeva di ciò, non colla Pisana, perché non la mi badava piucché al muro, finii come l'altra volta col prendermela con me stesso. Ma il dolore, come vi diceva, se più profondo, fu anche più ragionevole; venni a patti con essolui, e lo persuasi che, anziché cercar fomento nell'ozio e nella noia, più saggio partito era domandar distrazioni al lavoro ed allo studio. Mi misi di tutta schiena sopra Cicerone, sopra Virgilio, sopra Orazio: ne traduceva de' gran brani, li commentava a mio modo, e scriveva di mio capo sopra temi analoghi. Insomma posso dire che pe' miei studi classici quel secondo peccato della Pisana mi fu piucchealtro giovevole. Il Piovano si diceva contentissimo di me; si congratulava col Conte e col Cancelliere del mio amore per lo studio, e insomma tutti godevano, tutti meno io, di quei rapidi progressi. E non crediate mica che la fosse faccenda di ore e di giorni; la fu addirittura di mesi e di anni. Solamente vi si frapponevano i soliti respiri, le solite tregue. Ora la stagione rotta, ora le strade disfatte, ora il soverchio caldo e la brevità delle sere, ora le gite dei Frumier ad Udine, sospendevano la frequenza dei Conti di Fratta a Portogruaro. Allora risorgeva l'amore della Pisana per me, col solito corredo delle lusingherie per Sandro e per Donato: da ultimo ella sembrava accorgersi del mio malumore anche durante la sua fase di furore per Lucilio, e la mi compativa e la mi dava in elemosina qualche occhiata e perfino anche qualche bacio. Io pigliava quello che mi davano come un vero accattone; il dolore mi aveva uguagliato al pavimento, come dice quel salmo; e mi avrei lasciato pestare, premere e sputacchiare senza risentirmene. Ciò non toglie che non diventassi ogni giorno più un latinista di vaglia; e sudava e impallidiva tanto sui libri, che Martino alle volte mi diceva che gli avrebbe quasi piaciuto di più il vedermi girare lo spiedo come agli anni addietro. Non importa. Io aveva scoperto da per me quel gran aiuto a vivere che si ha nel lavoro, e checché ne pensasse Martino, credo che sarei stato più misero di gran lunga se avessi svagato i miei dolori nella dissipazione o accresciutili coll'ozio. Almeno ne guadagnai che di poco oltrepassati i quindici anni io potei sostenere al Seminario di Portogruaro un esame di grammatica, di latino, di composizione, di prosodia, di rettorica e di storia antica; dal quale me la cavai con una gloria immortale. Figuratevi che in tre anni scarsi io aveva imparato quello che gli altri in sei!... Dopo un sì pieno trionfo fu deciso in famiglia che mi avrebbero mandato a Padova a prendervi i gradi di dottore; ma intanto ebbi un posto fisso come vice–officiale in cancelleria col soldo annuo di sessanta ducati, che equivalevano a quattordici soldi il giorno. Poco, pochissimo certo; ma io fui molto contento d'intascare alcune monete dicendo: “Queste qui son proprio mie, perché me le son guadagnate io!”. La nuova dignità a cui era salito fece anche sì che avessi un posto alla tavola dei padroni, e che potessi entrare nella sala di casa Frumier stando seduto vicino al Cancelliere a guardarlo giocare il tresette. Questa occupazione mi quadrava pochissimo; ma altrettanto mi garbava l'aver sempre sott'occhio la Pisana, e rodermi continuamente degli attucci che ella faceva per dimostrar il suo amore a Lucilio. Davvero che a ripensarvi ora, devo riderne a piena gola; ma in quel tempo la cosa era diversa. Me ne piangeva il cuore a lagrime di sangue. La Pisana intanto era cresciuta anch'essa una vera zitella. Non la toccava i quattordici anni che la parea già perfetta e matura. Non molto grande, no; ma di forme perfettissime, ammirabile soprattutto nelle spalle e nel collo: un vero torso da Giulia, la nipote di Augusto: la testa un po' grande ma corretta con un bellissimo ovale; e poi capelli alla dirotta, occhi umidi sempre e languenti come di fuoco nascosto, sopracciglia sottilissime, e un bocchino poi, un bocchino da dipingere o da baciare. Voce rotonda e sonora, di quelle che non tintinnano dal capo, ma prendono i loro suoni dal petto, dove batte il cuore; un andare, ora quieto ed uguale come di persona che discerna poco, ora saltellante e risoluto come d'una scolaretta in vacanza; adesso muta, chiusa, pensierosa, di qui a poco aperta, ridente, se volete anche, ciarliera; ma già le ciarle essa le avea perdute e ben presto: si vedeva già a quattordici anni che altri pensieri la preoccupavano tanto da farle restar torpida la lingua. Così stava da vera donnetta in conversazione; uscita poi, e sciolta dai rispetti umani, i diritti, dell'età si impadronivano di quel corpicciuolo ben tornito e gli facevano fare le più gran capriole, i più bizzarri contorcimenti del mondo. Allora aveva del ragazzaccio più del bisogno; come invece in sala si atteggiava a donnina languida e leziosa. A questo modo me la ricordo in quegli anni di transizione, ora bambina affatto ed ora donna

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Argomenti: pieno trionfo,    secondo peccato,    solito corredo,    posto fisso,    soldo annuo

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