Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 143

Testo di pubblico dominio

quanta vicenda di cose, quanto fragore di tempeste, e sguiscio di fulmini! Si armi di costanza e di rassegnazione il piloto per trovare un porto in quel pelago vorticoso e sconvolto; alzi sempre gli occhi al cielo, ed anche traverso nuvole e al velo luttuoso della procella traveda sempre colla mente lo splendor delle stelle. Passano le navi, ora calme e leggiere come cigni sull'onda d'un lago, or risospinte ed agitate come stormo di pellicani tra il contrario azzuffarsi dei venti; sorgono i flutti minacciosi al cielo, si sprofondano quasi a squarciare le viscere della terra, e si stendono poi graziosi e tremolanti all'occhio del sole, come serico manto sulle spalle d'una regina. L'aria si annebbia greve e cinerea; s'empie di nubi, di burrasche, di tuoni, nera come l'immagine del nulla nella notte profonda, grigia come la chioma scapigliata delle streghe nel trasparente biancheggiar del mattino. Indi la brezza profumata spazza via come larve sognate quelle apparizioni spaventose; il cielo s'incurva azzurro calmo e sereno, e non ricorda e non teme più l'assalto dei mostri aereiformi. Ma cento milioni di miglia sopra quelle effimere battaglie, le stelle siedono eterne sui loro troni di luce; l'occhio le perde di vista talvolta e il cuore ne indovina sempre i raggi benigni, e ne sente e ne raccoglie l'arcano calore. O vita, o mistero, o mare senza sponde, o deserto popolato da oasi fuggitive, e da carovane che viaggiano sempre, che non giungono mai! Per consolarmi di te bisogna che io slanci il pensiero fuori di te; veggo le stelle ingrandirsi agli occhi delle generazioni venture; veggo il piccolo e modesto seme delle mie speranze, covato con tanta costanza, fecondato da tanto sangue da tante lagrime crescere in pianta gigantesca, empir l'aria de' suoi rami, e proteggere della sua ombra la famiglia meno infelice de' miei figliuoli! Oh non vivrò io sempre in te, anima immensa, intelligenza completa dell'umanità! — Così pensa il giovane sul sepolcro dell'amico; così si conforta la vecchiaia nel baldanzoso aspetto dei giovani. La giustizia, l'onore, la patria vivono nel mio cuore, e non morranno mai. La stanchezza mi vinse, dormii alcune ore sullo stesso letto dove dormiva per sempre Leopardo; e il mio sonno fu profondo e tranquillo come sul seno della madre. La morte veduta così davvicino in simili sembianze nulla aveva d'orribile, o di schifoso; sembrava un'amica fredda e severa bensì, ma eternamente fedele. Mi destai per porgere gli estremi uffici all'amico, deporlo nel suo ultimo letto, e accompagnarlo per le acque silenziose all'isola di San Michele. Io invidio ai morti veneziani questo postumo viaggio; se un lontano sentore di vita rimane in essi, come pensa l'americano Pöe, deve giungere ben soave ai loro sensi assopiti il dolce molleggiar della gondola. In quel lido angusto e deserto, popolato soltanto da croci e da uccelli marini, poche palate di terra mi divisero per sempre da quelle spoglie dilette. Non piansi, tanto era impietrato di dentro come l'Ugolino di Dante; tornai colla stessa gondola che avea condotto la bara, e il vivo che tornava non era allora più vivo del morto ch'era rimasto. Rientrato in Venezia osservai un andirivieni di curiosità fra la gente del volgo, e un movimento maggiore del consueto nella guarnigione francese. Udii da taluno che erano giunti i Commissari imperiali per disporre le cerimonie della consegna; li avevano veduti entrare al Palazzo del Governo e il popolo s'affollava per vederli ripassare. Non so per qual ragione mi fermai, ma credo che cercassi alla peggio un nuovo dolore che mi distraesse dal mio sbalordimento. Indi a poco i Commissari uscirono in fatti con grande scalpore di sciabole e pompa di piume. Ridevano e parlavano forte cogli ufficiali francesi che li accompagnavano; così scherzando e ridendo s'imbarcarono in una peota fatta loro addobbare suntuosamente da Serrurier per ricondurli al campo. Uno solo si divise dai compagni per restare a Venezia; ed era nientemeno che il signore di Venchieredo. Mezz'ora dopo lo vidi ripassare in Piazza a braccetto del padre Pendola, ma non aveva più né sciabola né piume, vestiva un abito nero alla francese. Raimondo e il Partistagno ch'io vedeva allora a Venezia per la prima volta, li seguivano con un'aria di trionfo; l'accostarsi di quest'ultimo a simil razza di gente mi spiacque non poco; non tanto per lui quanto perché era indizio del gran frutto che i furbi saprebbero trarre dalla pieghevole natura degli ignoranti. La lama non pensa, ma è tuttavia strumento micidiale in un pugno ben sperimentato. Finii collo scappare a casa, perché sentiva di non poter reggere più a lungo; e vi confesso che in quel momento era inetto affatto a qualunque forte deliberazione. Per quanto avessi udito bisbigliare di arresti, di condanne e di proscrizioni, non mi poteva decidere a movermi di colà. Era caduto in quello spensierato abbattimento nel quale ci mancano i nervi e la volontà per saltare dalla finestra; ma un fulmine che ci colpisse, o una trave caduta giù pel capo, parrebbe un regalo del cielo. Allora soltanto mi risovvenne di quelle carte appartenenti a mia madre le quali io doveva trovare nello scrittoio; misera eredità d'una sventurata ad un orfano più sventurato ancora. Apersi trepidando il cassetto; e slegata una vecchia busta di cartone, mi misi a rovistare alcuni fogli polverosi e giallognoli che vi si contenevano. Scorsi prima alcune lettere amorose più o meno invenezianate e cosperse di errori ortografici. Erano d'un nobiluomo forse morto da gran tempo e seppellito coi fantasmi de' suoi amori; non appariva il nome, ma la nobiltà del suo casato era accertata da molti passi sparsi qua e là in quella lunga corrispondenza. Potrei darne qualche saggio per mostrar la maniera con cui si faceva all'amore colle zitelle alla metà del secolo passato. Pare che le quistioni importanti non si trattassero in iscritto; invece l'amante si dava gran cura di metter in mostra le proprie belle qualità, e di descrivere le impressioni avute dalle buone grazie della bella in varie circostanze. Il frasario non era troppo squisito; ma quanto mancava di squisitezza si compensava coll'ardenza; sopra tutto poi si diffondeva un incanto di buona fede, di calma, di bontà, che adesso è relegato nelle letterine che i collegiali scrivono ai parenti per le feste di Natale. Tuttavia, potete crederlo, che quella lettura non si affaceva molto in quel giorno con quell'umore. Passai oltre. Altre lettere di maestre e d'amiche di convento, più scipite delle prime. Andai innanzi ancora. Successe il completo epistolario erotico di mio padre. C'era del balzano assai; ma egli pareva innamorato quanto mai lo può essere uomo al mondo; e l'ultimo suo biglietto stabiliva il giorno e l'ora di quella fuga, che avea condotto i miei genitori a concepirmi in Levante. Come corollario a quelle lettere, trovai un libricciuolo di memorie tutte di pugno di mia madre, datate da molte città del Levante e dell'Asia Minore. Lì cominciava la storia. La felicità di mia madre avea durato fino a metà del tragitto. Le burrasche e il mal di mare pel resto del viaggio, la miseria e gli alterchi nei primi loro pellegrinaggi, in seguito le malattie gli strapazzi e perfino la fame le avevano smorzato d'assai quel primo incendio d'amore. Tuttavia non si stancava dal seguir suo marito, dal sopportare pazientemente le sue stranezze la sua indifferenza, e sopratutto le sue gelosie che parevano assai strane. Egli restava assente delle settimane intiere dai luoghi ove collocava la moglie, e questa rimaneva affidata a qualche povera famiglia di turchi, ove le conveniva fare da fantesca e da guattera per guadagnarsi il vitto. Mio padre girava intanto per gli harem e pei chioschi dei ricchi mussulmani commerciando di spilloni, di specchietti e d'altri ninnoli ch'ei sapeva vendere a prezzi incredibili; così almeno affermava mia madre ridotta allo stremo di tutto. Un bel giorno sembrava che le gelosie

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Argomenti: abito nero,    tanto sangue,    pieghevole natura,    nuovo dolore,    pelago vorticoso

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