Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 173

Testo di pubblico dominio

restar sospeso, così com'era, a cavalcione del davanzale. Sullo stesso muro da me scavalcato vidi sorgere un cappello a tre punte, indi un altro e un altro ancora. Era gente che aveva gran fretta di entrare, e pareva più disposta a fracassarsi il capo precipitando dalla muraglia nell'orto, che a restare dall'altra. Uno di essi giunto al sommo s'apprestava a discendere, quando tuonò come un'archibugiata; egli stese le braccia, e giù come un vero morto. Intanto quelli ch'eran già passati la davano a gambe traverso i cavoli; li ravvisai pei miei compagni, e non li ebbi conosciuti appena, che sul solito muro cominciarono a sorgere altri cappelli, e dietro i cappelli altre teste e braccia e gambe che non finivano più. Ne calava uno e ne sorgevan dieci; una vera invasione, la vera piaga delle locuste che oscuravano l'aria. — I Napoletani! i Napoletani! — gridavano i miei compagni arrivati sotto al muro e arrampicandosi frettolosamente su per la scala in capo alla quale io sedeva. — Piano, adagio! — rispondeva io. — Se no vi ammazzerete tutti senza aspettare che vi ammazzino essi. Infatti la scala con un uomo per ogni piuolo scricchiolava come un pero troppo carico di frutta. Io prudentemente mi era ritirato con ambedue le gambe nella stanza, e credeva fare più che non fossi obbligato, col tenerli forniti di buoni consigli. — Uno alla volta!... Non intralciatevi le gambe gli uni cogli altri!... Non isquassate tanto la scala!... Tutto in un momento un fischio di qua un fischio di là, uno scoppio per l'aria come di quattro o cinque saette che s'azzuffassero, e vicino a me uno scotimento tale che mandò in pezzi i cristalli. Sette dei miei colleghi balzarono nella stanza, uno rimase fuori morto, fortuna che fu proprio morto e non ferito; aggiungendosi l'altro ucciso mentre scavalcava il muro si aveva il conto giusto, che eravamo proprio in dieci. Corbezzoli! non v'avea proprio dubbio; le erano state schioppettate e ferme al loro indirizzo!... Sentiva allora per la prima volta l'odor della polvere. A me la fece l'effetto d'una convulsione di riso, come di chi l'ha scapolata bella. Peraltro non vorrei giurare che non avessi nulla, proprio nulla di paura: almeno mi si lasci il vanto della sincerità. Tuttavia se ebbi paura, non ne ebbi tanta che mi vietasse di tornar alla finestra e far un certo gesto molto espressivo a quei scuriscioni napoletani, che guardavano in alto senza poter seguirci per aver noi ritirato con molta bravura la scala. Quel gesto fu il tocco magico che mise l'entusiasmo in petto ai miei compagni; ma anche i nemici non burlavano, e cominciarono una certa musica coi loro schioppi che non dava gran voglia di affacciarsi al balcone per guardar il tempo. Noi ci eravamo serviti di fucili di coltelli e di pistole in quell'armeria così opportunamente disposta; rendevamo i saluti con tutta compitezza; e mentre essi a noi sforacchiavano i cappelli, noi a loro spalancavamo il cranio e la pancia. Non so se fossero contenti del cambio. Peraltro la continuazione di quella commedia ci dava da pensare. Da dove fossero sbucati quei Napoletani?... Che il capitano non ne sospettasse nulla? Che essi fossero già in cammino da senno dalla parte della maremma mentre noi gridavamo il falso allarme verso la montagna? Così era successo infatti; e una semplice bizzarria potea costarmi salata a me, a tutta la legione, e dar anche ad uno scherzo ad una bravata l'apparenza del tradimento. Intanto si continuava a schioppettare dall'alto in basso con maggior fortuna che dal basso in alto, quando credemmo accorgerci che i nemici rallentassero non poco della loro vivacità. Qualcuno di noi s'apparecchiava a cantar vittoria e fors'anche a dare addosso a quei pochi ostinati che non volevano ritirarsi e scorazzavano dietro le piante del verziere, quando s'udì sotto i nostri piedi un fragore come d'uno scoppio sotterraneo, e poco stante un correre uno scalpitare nelle stanze terrene susseguito da grida da urli da bestemmie e da giaculatorie secondo il pio costume dei Napoletani quando vanno in guerra. Ciascuno di noi fu soprappreso da terrore; mentre i bersaglieri ci tenevano a bada, il grosso degli assalitori avea sfondato una porta con una piccola mina; il convento era invaso; uno contro dieci sarebbe stato vano il pensiero di resistere. Io allora, che mi sentiva nella coscienza tutto il rimorso di quella malaugurata fazione, mi slanciai coraggiosamente alla testa dei compagni. Poche parole, un pronto e buon esempio, e capii che mi avrebbero secondato a dovere. — Amici, vadano le nostre vite, ma non cediamo il piano superiore!... Pensate all'onor vostro, all'onore della legione!... — Così dicendo m'era gettato fuori della guardaroba, e giunto sulla scala m'era ingegnato a barricare la porta con armadi con tavole ed altri mobili che potemmo raccozzare. I Napoletani salivano sicuri, ma trovarono tra le fessure alcune bocche di moschetto ben appostate che li fecero dar indietro gli uni sugli altri. — Coraggio, amici! — soggiunsi — un soccorso non può tardare!... — Infatti mi pareva impossibile che al rumore delle archibugiate il signor Ettore non ispiccasse taluno a vedere di che si trattava. Non mi sarei mai figurato che quel giorno appunto fosse destinato alla prima mossa dell'esercito napoletano, e che egli fosse da parte sua molto affaccendato a tenerne lontani gli scorridori, perché la legione avesse campo di uscir da Velletri. Ad ogni modo ci adoperammo tanto bene dietro il buon riparo d'una doppia porta di quercia che i nemici dimisero affatto il pensiero di salire per la scala. Ci avvidimo peraltro ch'essi lo avevano dimesso per entrare in un altro più pericoloso ancora; pareva che avessero appiccato il fuoco sotto i nostri piedi; il fumo pei fessi del solaio penetrava nell'andito ove eravamo e ci toglieva il respiro; poco dopo cominciarono a crepitare le travi, e le fiamme a farsi strada tra i mattoni arroventati. Fuggimmo a precipizio nelle stanze vicine, e un minuto dopo quel pavimento crollava con fracasso spaventevole. Ma anche nelle altre stanze la sicurezza non era maggiore; l'incendio s'era dilatato in un attimo, perché c'erano sotto appunto i magazzini della paglia; bisognava uscire o rassegnarsi a morire abbrustoliti. I miei compagni con pistole fra mano e la spada fra i denti si precipitarono dalle finestre, e sgominando per la sorpresa i pochi nemici distratti dalla vista dell'incendio, si ritrassero a salvamento sulla collina. Uno solo, inciampato nel cadere, si slogò e si ruppe una gamba, benché il salto da quella parte fosse discretissimo; e subito quei sicari gli furono addosso come lupi ad un agnello, e a dirvi le torture e gli strazii che gli fecero soffrire, sarei tacciato senza fallo di bugiardo, perché sembrerebbe impossibile che tanto si infierisse contro una creatura umana in un attimo di tempo. Io mi ritrassi raccapricciando; pure una forza sovrumana mi comandava di non fuggire; mi relegava fra quelle muraglie già invase dalle fiamme. Altre creature vi erano chiuse, non sapeva chi; ma bastava perché io, cagione innocente di quell'eccidio, mi sacrificassi ad una lontana lusinga di poterle salvare. Correva come un pazzo pei lunghi corritoi, passava da porta a porta per le innumerevoli celle e pei profondi appartamenti del chiostro; l'aria si riscaldava sempre più come d'un forno in cui si rattizzi mano a mano la fiamma. Dappertutto era solitudine e silenzio; solo gli urli di fuori e un lontano strepito d'archibugiate aggiungeva terrore a quegli angosciosi momenti. Deliberato a non tentare la fuga se prima non era ben certo che anima umana non restasse in quell'inferno, mi avventurai a un disperato passaggio sopra quell'andito il cui pavimento ci era quasi crollato sotto ai piedi. Restavano alcune travi fumiganti e da un lato della muraglia una specie di volta che copriva una scala sottoposta. Passai correndo sopra questa, e mi diedi a vagare dissennato per quell'altra parte dell'edifizio. Giunsi ad

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Argomenti: solito muro,    pero troppo,    certo gesto,    falso allarme,    semplice bizzarria

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