Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 181

Testo di pubblico dominio

da una folla armata e tumultuante. Era una masnada di Ruffo mandata a ricongiungersi coi Russi di Micheroux. Avvistici troppo tardi di esser caduti in quel vespaio, ebbimo un bel menar le mani per cavarcela. Il Martelli con diciassette altri giunsero a fuggire; dieci rimasero morti; otto, fra i quali io, tutti più o meno feriti fummo salvati per adornamento alle forche in qualche giorno festivo. Così diceva, al paragrafo dei prigionieri, il Codice militare di Ruffo. La masnada di cui fui prigioniero era capitanata dal celebre Mammone, l'uomo più brutto e bestiale ch'io mi abbia mai conosciuto, il quale portava molte medagliette sul cappello come la buon'anima di Luigi XI. Trascinato in coda ad essa a piedi nudi, ed esposto a continui vituperii, vagai a lungo per quella Puglia stessa dove aveva regnato cinque o sei giorni prima poco men che padrone. Vi confesso che quella vita mi garbava pochissimo, e che siccome i ferri alle mani ed ai piedi m'impedivano di fuggire, null'altra speranza coltivava che quella di essere alla bell'e prima impiccato. Una sera peraltro, mentre giungevamo al feudo di Andria, sede della mia passata grandezza, un pastore mi si avvicinò come per farmi insulto ad usanza degli altri, e dopo avermi detto a voce alta le più sfacciate indegnità che fantasia napoletana possa immaginare, aggiunse tanto sommessamente che appena lo intesi: — Coraggio, padroncino! in castello si pensa a voi! — Mi parve allora ravvisare in esso uno dei più fidati coloni del Carafa; e poi levando gli occhi al castello mi stupii infatti di vederne le finestre illuminate, sendoché pochi giorni prima io l'avea lasciato chiuso e deserto e il suo padrone si trovava ancora negli Abruzzi, anzi lo dicevano assediato dagli insorti nella cittadella di Pescara. Tuttavia non avendo che fare di meglio, per quella sera mi diedi a sperare. Quando fummo verso la mezzanotte uno di quei briganti venne a togliermi dal pagliaio ove m'avevano confitto, e fatto vedere alle guardie un ordine del capitano, mi sciolse i ferri dalle mani e dai piedi e mi disse di seguirlo lungo la via. Giunti ad una casipola lontana da Andria un trar di mano, mi consegnò ad un uomo piuttosto piccolo e misteriosamente intabarrato che gli rispose asciutto un — Va bene! — e il brigante tornò per dov'era venuto, ed io rimasi con quel nuovo padrone. Era così in bilico se di rimanere in fatti o di darmela a gambe, quando un'altra persona che mi parve tosto una donna sbucò di dietro a quello del tabarro, e mi si precipitò addosso coi più caldi abbracciamenti del mondo. Non conobbi ma sentii la Pisana. Ma quello del tabarro non fu contento di questa scena e ci tenne a mente che non v'avea tempo da perdere. Io conobbi anche la voce di questo, e mormorai ancor più commosso che stupito: — Lucilio! — Zitto! — soggiunse egli, menandoci ad un canto oscuro dietro la casa, ove tre generosi corridori mordevano il freno. Ci fece montar in sella, e benché da dodici ore non avessi toccato cibo né bevanda non mi accorsi di aver varcato otto leghe in due ore. Le strade erano orribili, la notte scura quanto mai, la Pisana, stretta col suo cavallo in mezzo ai nostri, pendeva ora a destra ora a sinistra, impedita di cadere solo dalle nostre spalle che se la rimandavano a vicenda. Era la prima volta che montava a cavallo; e di tratto in tratto aveva coraggio di ridere!... — Mi direte poi con quale stregheria giungeste ad ottener tanto dal signor Mammone! — le chiese Lucilio che a quanto pare in certa parte di quel mistero ne sapeva quanto me. — Capperi! — rispose la Pisana parlando come lo permetteva lo strabalzar continuo del cavallo. — Egli mi disse che son molto bella; io gli promisi tutto quello che mi domandò; anzi giurai per tutte le medaglie che porta sul cappello. Alle due dopo mezzanotte doveva andarsene ad Andria a ricevere il prezzo della sua generosità! Ah! Ah! — (Rideva la sfacciata del suo generoso spergiuro). — Ah per questo vi stava tanto a cuore di partire prima delle due! Ora capisco! Allora toccò a me chiedere schiarimenti su tutto il resto: e seppi come, avviati a raggiungermi la Pisana e Lucilio con potenti commendatizie del Carafa, avessero incontrato qualche fuggiasco della banda del Martelli che li avvertì della mia prigionia. Udendo che Mammone dovea giungere l'indomane ad Andria, ve lo aveano preceduto; e là la Pisana avea copiato in parte dalla storia di Giuditta l'astuzia che mi avea salvo dalla forca. Non so tra Mammone ed Oloferne chi fu peggiormente canzonato. Sul far del giorno giunsimo alle prime vedette del campo repubblicano di Schipani, ove Giulio ed Amilcare furono sorpresi e contenti di udire i pericoli da me corsi e fortunatamente superati. Le feste, i baci, le gioie, le congratulazioni furono infinite: ma in mezzo a tutto ciò essi recavano in fronte una profonda mestizia per la prossima e inevitabile rovina della Repubblica: io celava un altro benché diverso lutto nel cuore per la tragica morte di mio padre. Il primo col quale m'apersi fu Lucilio. Egli m'ascoltò più addolorato che sorpreso, e — Pur troppo — soggiunse — dovea finire così! Anch'io fui partecipe di cotali errori!... anch'io piango ora tanto tempo, tanti ingegni, tante vite così inutilmente sprecate!... Attendi al mio presagio!... Presto un simile caso funesterà le vicinanze d'Ancona!... Non capii a che volesse alludere ma feci tesoro di quelle parole e mi ricordai alcun mese dopo quando Lahoz, generale cisalpino, disertore dai Francesi per la fede rotta da essi alla libertà della sua patria, si volgeva ai sollevati Romagnuoli e agli Austriaci per scrollare l'ultimo baluardo che rimanesse alla Repubblica in quella parte d'Italia, la fortezza d'Ancona. Ammazzato dai suoi fratelli stessi che militavano fedeli sotto il francese Monnier, pronunciava prima di morire grandi parole di devozione all'Italia; ma moriva in campo non italiano, fra braccia non italiane. E così cadeva miseramente l'anima di quella società secreta che diramandosi da Bologna per tutta Italia si proponeva di tutelare l'indipendenza fra l'antagonismo delle varie potenze che se la disputavano. Vollero appoggiarsi a questi per debellar quelli; bisognava appoggiarsi a nessuno e saper morire. Giunsimo a Napoli colla colonna di Schipani ributtata sulla capitale dalle turbe sempre crescenti di Ruffo. La confusione il tumulto la paura erano agli estremi. Tuttavia si disposero presidii nelle torri nei castelli, e se non vi fu guerra vi furono morti da eroi. Francesco Martelli fu posto a difesa della Torre di Vigliena. Deliberato a morire piuttosto che cedere, mi scrisse una lettera raccomandandomi la moglie ed i figli. Giulio Del Ponte piucchemai languente del suo male e quasi sfinito affatto chiese per grazia di avere comune col Martelli quel posto pericoloso e l'ottenne. Quando partì da Napoli per quella trista destinazione la Pisana gli posò un bacio sulle labbra, il bacio dell'ultimo commiato. Giulio sorrise mestamente e volse a me un lungo e rassegnato sguardo d'invidia. Due giorni dopo i comandanti della Torre di Vigliena stretti da Ruffo, da reali, e da briganti, e impotenti omai a resistere appiccavano il fuoco alla mina, e saltavano in aria con un buon centinaio di nemici. I loro cadaveri ricadevano in brandelli in frantumi sul suolo fumigante che l'eco della montagna ripeteva ancora il loro ultimo grido: — Viva la libertà! Viva l'Italia! Nell'anarchia di quegli ultimi giorni perdemmo di vista Amilcare, e solo qualche mese dopo seppi ch'egli avea finito a vivere da vero brigante nelle montagne del Sannio. Sorte non insolita delle indoli forti e impetuose in tempi e in governi contrari! Entravano pochi giorni dopo in Napoli, per viltà schifosa di Megeant, comandante francese di Sant'Elmo, Russi, Inglesi, e malandrini di Ruffo. Nelson d'un tratto annullava la capitolazione dicendo che un re non capitola coi sudditi ribelli: allora cominciarono gli assassinii, i martirii. Fu un vero

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