Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 133

Testo di pubblico dominio

posto oscurissimo nella Ragioneria del governo. Un ducato d'argento al giorno e la Biblioteca Marciana lo assicuravano da tutti i bisogni della vita. Ma io lo vedeva anche lui camminare per via col capo e cogli occhi internati; scommetto che non era l'ultimo a sentire dolorosamente la viltà di quei costumi, di quei tempi. Lo confesso colla vergogna sul volto; era proprio viltà. Tutti sapevano ove si precipitava e ognuno faceva le viste di non saperlo per esser liberato dall'incommodo di disperarsene. Il solo Barzoni fra i letterati osò alzare la voce contro i Francesi con quel suo libro già in addietro accennato dei Romani in Grecia. Ma questa erudizione falsificata in libello, questa satira stiracchiata colle analogie è già indizio di temperamento fiacco, e di letteratura evirata. Fu un gran sussurro intorno a quel libro ed all'anonimo autore; ma lo leggevano a porte chiuse col solo testimonio della candela, pronti a gettarlo sul fuoco al minimo sussurro ed a proclamare il giorno dopo sui caffè che le depredazioni di Lucullo e l'astuta generosità di Flaminio non somigliavano per nulla al governo generoso e liberale di Bonaparte. Infatti egli ci spogliava della camicia per farne un presente alla libertà di Francia; i futuri servi dovevano restare ignudi come gli iloti di Sparta. Egli aveva già rimpastato intorno a Milano la Repubblica Cisalpina, minaccia più che promessa alla sempre provvisoria Municipalità di Venezia. La liberazione del signor d'Entragues, ministro borbonico, vilmente consegnatogli dalla scaduta Signoria, lo aveva messo in voce di galantuomo presso gli emigrati; ne speravano un Monk; guardate che nasi! Invece i repubblicani incorreggibili, i demolitori della Bastiglia, gli adoratori degli alberi, i Bruti, i Curzi, i Timoleoni lo adocchiavano di sbieco, tacciandolo sottovoce di alterigia, di falsità, di tirannia. La Municipalità, che dopo lo scacco di Bassano si sentiva mancar sotto i piedi il terreno, ebbe l'ingenuo capriccio di chieder l'incorporamento degli Stati veneziani nella nuova Repubblica lombarda. Ma i governanti di questa risposero parole dure ed altiere; sarebbe un fratricidio, se la volontà sottintesa del Bonaparte non lo spiegasse per servilità. Ad ogni modo restino infamati per sempre i nomi di coloro che sottoscrissero un foglio dove si negava aiuto a una città sorella, sventurata e pericolante. Meglio annegare insieme che salvarsi senza stendere una mano al congiunto all'amico che implora pietosamente soccorso. Io per me sperava come gli altri nella venuta del Generale; sperava che i segni i monumenti della nostra grandezza passata lo avrebbero distolto dalla crudele e premeditata indifferenza ch'egli già cominciava a ostentare a nostro riguardo. Ma invece del Generale, trattenuto da rimorsi o da vergogna, non ci capitò che sua moglie, la bella Giuseppina. Essa sbarcò in Piazzetta con tutta la pompa d'una dogaressa; e ne aveva se non la maestà certo lo splendore in quelle sembianze di vera creola. Tutta Venezia fu a' suoi piedi; coloro che avevano accarezzato Haller, il banchiere, l'amico di Bonaparte, per ottenerne una prolungazione di agonia alla vecchia Repubblica, accarezzarono, adularono, venerarono allora la moglie del sensale dei popoli, perché non si uccidesse prima della nascita quell'aborto nuovo di libertà. Io pure mi pavoneggiai colla mia splendida tracolla di segretario nel corteggio dell'Aspasia parigina. Vidi la sua bella bocca sorridere alle gentilezze veneziane, udii la sua voce carezzevole bisbigliare il francese quasi come un dialetto italiano; io, che n'avea studiato un pochino in quei tempi di infranciosamento universale, balbettava a mia volta l'oui e il n'est pas con taluno degli aiutanti di campo che l'accompagnava. Infine fosse prestigio di bellezza, o apparenza di buona volontà, o tenacità di lusinghe, le speranze degli illusi ebbero qualche ristoro dalla visita di quella donna. Perfino mio padre non iscrollava più il capo, e mi spingeva ad avanzarmi a farmi vedere nella prima fila degli adulatori. — Le donne, figliuol mio, le donne son tutto — mi diceva egli. — Chi sa? forse il cielo ce l'ha mandata: da picciol seme nascono le grandi piante; non mi stupirei di nulla. Invece il dottor Lucilio, che addomesticato col ministro di Francia fu ammesso più d'ogni altro all'intrinsichezza della bella visitatrice, non partecipò, per quanto mi pare, a codesto invasamento generale. Egli studiò in Giuseppina non la donna ma la moglie; da questa indovinò il marito, e il pronostico che ne trasse per la nostra sorte che stava nelle sue mani non fu molto favorevole. Si confermò piucchemai nella sua profonda disperazione; e lo vidi a quei giorni più tetro e misterioso del solito. Gli altri ballonzolavano tutti che parevano alla vigilia del millennio. Municipali, capi–popolo, ex–senatori, ex–nobili, dame, donzelle, abati e gondolieri s'affoltavano dietro la moglie del gran capitano. La bellezza può molto a Venezia; essa potrebbe tutto quando fosse avvivata internamente da qualche alto sentimento, e ce ne diedero tempi più vicini una prova. Le donne fanno gli uomini, ma l'entusiasmo improvvisa le donne anche dove l'educazione non ha preparato che delle bambole. Più volte facendo codazzo alla Beauharnais, o nelle sue anticamere, la Pisana e il suo frollo sposino mi passarono rasente il gomito. Io ne guizzava tutto, come se mi rovesciassero una catinella d'acqua sul dorso; ma mi sovveniva della mia dignità, delle raccomandazioni di mio padre e mi faceva pettoruto e disinvolto per attrar l'attenzione dell'ospite illustre. Essa infatti mi osservò, e la vidi chieder conto di me a Sua Eccellenza Cappello che le reggeva il braccio: si parlarono sottovoce, ella mi sorrise e mi porse la mano che baciai con molto rispetto. Così si trattavano allora le mogli dei liberatori, con bocca devota e ginocchi piegati. Gli è vero che quella mano era così paffutella così morbida e perfetta da far uscir di capo che la appartenesse ad una cittadina; molte imperatrici ne avrebbero desiderato un paio di simili, e Catterina II non le ebbe mai, per quanti saponi ed acque nanfe le componessero i suoi distillatori. Allora io diventai, dico dopo quel bacio, un personaggio di gran momento, e la Pisana mi onorò d'un'occhiata che non era certo indifferente. Sua Eccellenza Navagero mi guardò anch'esso con minore indifferenza della moglie, né ci voleva di più per farmi smarrire affatto. In buon punto soccorse Giulio Del Ponte, che seguiva a quanto sembra la coppia fortunata, e mi volsi tutto confuso a parlare con lui. Non so di che discorressi, ma mi ricorda che cascammo alla Pisana ed al suo matrimonio. Giulio non era più felice l'un per cento di quanto aveva sperato di poterlo diventare il giorno delle loro nozze; infatti lo adocchiai allora, e lo vidi incadaverito, come un amante in procinto di fallire. La malattia dell'animo lo aveva ripreso; e rodeva lentamente un corpo gracile di natura e già offeso da precedenti disgrazie. Però non lo compatii allora come per l'addietro: aveva capito di qual tempra fosse l'amor suo, e non lo reputava degno né di stima né di pietà. Io mi maraviglio ancora che colla maniera di mia educazione, avessi potuto serbare una tal rettitudine di giudizio nelle cose morali. Ma dubito ancora che l'avessi a danno degli altri, e che verso di me sarei stato di gran lunga più indulgente. Comunque la sia non entrai a parte per quella volta dell'accoramento di Giulio, e lo lasciai smaniare a disperarsi a sua posta senza piangere: tanto più che allora non poteva fargli cessione della Pisana, né cancellare a suo conforto quella larva incommodissima di marito. Infatti l'occhiuta e pettegola gelosia di costui era il primo tormento del povero Giulio; ma se ne aggiungeva uno di peggiore assai. — Vedi — mi bisbigliava egli all'orecchio con un rabbioso scricchiolio di denti — vedi quel lesto ufficialino che tien sempre dietro alla Pisana, e saltella dal

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