Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 179

Testo di pubblico dominio

mezzi da nuocere. Tuttavia l'autorità del Carafa nel cui nome si comandava, l'esempio di Trani saccheggiata ed incesa per la sua pervicacia nella ribellione, imponevano qualche riguardo alla gente, e il governo della Repubblica era tacitamente tollerato sopra tutta la costiera dell'Adriatico. Nei paesi meno barbari e dove qualche coltura era disseminata nel ceto mezzano si aveva paura delle bande del Cardinale, e piucché le intemperanze dei Francesi, gli eccidi di Gravina e d'Altamura comandati da Ruffo tenevano gli animi in sospetto. A quei giorni mi potei convincere di quello strano fenomeno morale che nel Regno di Napoli concentra una massima civiltà e una squisita educazione in pochissimi uomini per lo più di nobili o egregi casati, e lascia poltrire le plebi nell'abbiezione dell'ignoranza e delle superstizioni. Difetto di governo assoluto geloso e quasi dispotico all'orientale, che tenendo lontane da sé le menti meglio illuminate, le avventa senza freno alle più strambe teorie, e per riparo poi deve appoggiarsi allo zelo fanatico e accarezzato d'un volgo vizioso. Canonici come monsignor di Sant'Andrea e patrizi filosofi come il Frumier se ne contavano a centinaia nelle cittadelle delle Puglie, e di costoro s'afforzava massimamente il partito repubblicano. Ma allora era tempo di menar le mani, e i briganti la spuntavano sui dotti. Capita un giorno la notizia che le flotte alleate di Russia e Turchia sono in vista della Puglia. Non avevamo precise istruzioni intorno a questo caso, ma il Carafa ci aveva prevenuti di non sgomentirci, perché di poche forze poteva operarsi lo sbarco. Infatti, anziché intimorirci, noi accorsimo a Bisceglie dove pareva tendessero a concentrarsi gli sparsi bastimenti, e là, giovandoci del grande spirito degli abitanti e d'alcuni cannoni trovati nel castello, si guardò alla meglio d'armare la spiaggia. Avevamo sparso la voce che quelle flotte erano cariche di masnade albanesi e saracine pronte a vomitarsi sul Regno per metterlo tutto a ferro e fuoco. Siccome l'odio contro la nazione turchesca è tradizionale in quelle regioni, la gente ci spalleggiava a tutto potere. Così s'era tutto disposto a ribattere validamente un primo attacco a Bisceglie quando capitò a spron battuto un messo da Molfetta, sette miglia lontano, che recava d'uno sbarco che si tentava colà, e della grande opera che il popolo faceva per impedirlo. Vedendo le cose di Bisceglie bene accomodate, giudicammo opportuno io e Martelli di volger colà dove nessuna provvidenza s'avea presa contro il nemico. Disperavamo di difenderci a lungo, ma volevamo perdere piuttosto la vita che la certezza di aver fatto quanto da noi si poteva per la salute della Repubblica. Lasciammo buona parte della nostra gente a Bisceglie; e noi, insellati quanti cavalli si potevano trovare, corsimo a briglia sciolta sulla strada. Non so cosa m'avessi quel giorno, ma mi sentia venir meno la costanza e le forze: forse era certezza che la nostra causa era perduta e che non si combatteva omai per altro che per l'onore. Ai presentimenti si vuol credere molto a rilento. Martelli più disperato ma più forte di me veniami riconfortando a non disanimarmi, a non ismetter nulla di quella sicurezza miracolosa che finallora ci avea servito meglio d'un esercito a serbar in fede il contado della Puglia. Rispondeva che si desse pace, che avrei combattuto fino all'estremo, ma che una stanchezza invincibile mi rammolliva di dentro mio malgrado. Circa un miglio fuori da Molfetta cominciammo a veder il fumo ed ad udir lo scoppio delle archibugiate. Si vedeva anche in mare qualche legno che cercava avvicinarsi al porto, ma le onde un po' grosse lo impedivano. Entrati in paese trovammo lo scompiglio al colmo. Turchi e Albanesi sbarcati con qualche scialuppa s'eran messi a saccheggiare a massacrare con tanta crudeltà che pareva essere tornati ai tempi di Bajazette. Io imprecai furiosamente alla barbarie di coloro che davano così bella parte d'Italia in preda a quei mostri, e mi avventai con Martelli e coi compagni a una tremenda vendetta. Quanti ne incontrammo tanti furono tagliati a pezzi dalle nostre spade, calpestati dai cavalli, e fatti a brani dalla folla disperata che ci si ingrossava alle spalle. Sulla piazza ove si era già ritratto il maggior numero per riguadagnare le lance e buttarsi in mare, la carneficina fu più lunga e più terribile. Fu quella l'unica volta ch'io godetti barbaramente di veder il sangue dei miei simili spillar dalle vene, e i loro corpi sanguinosi ammucchiarsi boccheggianti e ferirsi l'un l'altro nelle convulsioni dell'agonia. La folla urlava frenetica e si saziava di sangue; già taluni più arditi s'erano impadroniti delle lance; ogni scampo era intercetto; l'ultimo di quegli sciagurati venne ad infilzarsi da sé nella mia baionetta; e subito cento mani rabbiose mi contesero lo schifoso trofeo. Molfetta era salva. I nipoti di Solimano avevano imparato a loro spese che non si può senza danno andar nella storia a ritroso: e che Maometto II (ne chieggo scusa alla cronologia) è da essi tanto remoto quanto Traiano da noi. Intanto le strade e la piazza riboccavano di gente che correva alla chiesa per ringraziar la Madonna di quella vittoria. Unitamente alla Beata Vergine del Presidio, i nomi dei capitani Altoviti e Martelli per migliaia di bocche erano levati a cielo. Avendo noi lasciato ordine a Bisceglie che ci si desse premuroso annunzio d'ogni novità, e non vedendosi alcuno e volendo d'altra parte concedere qualche riposo alla nostra gente, che oltremodo ne bisognava, ci ritrassimo ad un'osteria per ivi posare fino all'alba. Anche si temeva che acchetandosi il mare nuovi sbarchi di Turchi o di Russi venissero a trar vendetta delle lance perdute; gli è vero che soffiava uno scilocco indiavolato e che da questo lato le precauzioni erano piucché altro soverchie. Ciononostante i nostri accolsero con molto giubilo la proposta di questa brevissima tregua, e i tripudii coi marinai e colle donne del paese ebbero ben presto cancellato dalla loro memoria le fatiche e i pericoli della giornata. Martelli era uscito sul molo con qualche persona autorevole del luogo a speculare il tempo e a disporre le scolte; soletto melanconico io me ne stava nell'androne dell'osteria, coi gomiti sulla tavola, e gli occhi fissi nella lucernetta d'una Madonna di Loreto addossata al muro dirimpetto, o svagati a guardar nel cortile le tarantelle improvvisate sotto il fogliame d'una vite dai nostri soldati. L'allegra vita meridionale riprendeva come niente fosse le sue gioconde abitudini a venti passi da quel piazzale ove il sangue correva ancora, e venti o trenta cadaveri aspettavano la sepoltura. Le mie idee non erano certamente né animose né liete ad onta di quell'effimero trionfo; maladiceva fra me a quel perverso istinto che ci fa vivere più che nelle contentezze di oggi nelle paure dell'indomani, e invidiava la sprovvedutezza di coloro che ballavano e trincavano senza darsi un pensiero al mondo di quello ch'era e di ciò che sarebbe stato. Così passava da melanconia a melanconia quando un vecchio prete curvo e quasi cencioso mi si avvicinò timidamente, domandando se io fossi il capitano Altoviti. Risposi un po' ruvidamente di sì, perché una discreta esperienza non mi faceva molto tenero del clero napoletano, ed anco quelli erano tempi che il collare non era presso i repubblicani una gran raccomandazione. Il vecchio non si scompose per nulla alle mie aspre parole, e facendomisi più vicino mi disse d'aver cose importantissime a comunicarmi, e che persona legata a me con vincoli sacri di parentela desiderava vedermi prima di morire. Io balzai in piedi perché la mente mi corse subito a qualche stranezze della Pisana, ed era tanto disposto a veder ogni dove disgrazie, che ricorreva subito alle più funeste ed irreparabili. Temeva che avendomi saputo solo nelle Puglie le fosse saltato il ticchio di raggiungermi e che avvolta in quel massacro di Molfetta ne fosse rimasta

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Argomenti: vecchio prete,    venti passi,    ceto mezzano,    strano fenomeno,    grande spirito

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