Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 198

Testo di pubblico dominio

amanti, sono spose, madri, sorelle; ma anzi tutto sono infermiere. Non v'è cane d'uomo così sozzo così spregevole e schifoso che lontano da ogni soccorso e caduto infermo non abbia trovato in qualche donna un pietoso e degnevole angelo custode. Una donna perderà ogni sentimento d'onore di religione di pudore; dimenticherà i doveri più santi, gli affetti più dolci e naturali, ma non perderà mai l'istinto di pietà e di devozione ai patimenti del prossimo. Se la donna non fosse intervenuta necessaria nella creazione come genitrice degli uomini, i nostri mali le nostre infermità l'avrebbero richiesta del pari necessariamente come consolatrice. In Italia poi le magagne son tante, che le nostre donne sono, si può dire, dalla nascita alla morte occupate sempre a medicarci o l'anima o il corpo. Benedette le loro dita stillanti balsamo e miele! Benedette le loro labbra donde sprizza quel fuoco che abbrucia e rimargina!... Gli altri miei conoscenti di Venezia non parevano gran fatto curanti di me; ove si eccettuino i Venchieredo che cercavano in ogni modo di attirarmi, ed io mi teneva discosto con tutta la prudenza della mia ottima memoria. Dei Frumier il Cavaliere di Malta pareva sepolto vivo; l'altro, sposata la donzella Contarini e cacciato avanti nelle Finanze, era arrivato a farsi nominar segretario. L'ambizione lo spingeva per una carriera a cui per la nuova ricchezza poteva facilmente rinunciare; e con quel suo capolino di oca, giunto a disegnare la propria firma sotto un rapporto, gli pareva di poter guardare dall'alto in basso i cavalli di San Marco e gli Uomini delle Ore. Mi sorprese peraltro assaissimo che tanto lui quanto il Venchieredo l'Ormenta e taluni altri impiegati dell'usato governo continuassero ad esser sofferti dal nuovo, o nelle antiche cariche o in nuovi posti abbastanza importanti e delicati. Siccome peraltro né cogli usciti né cogli entranti io aveva a partire la mela, non m'alambicava il cervello di saperne il perché. Quello piuttosto che mi dava alcun fastidio si era che molti degli amici miei, di Lucilio d'Amilcare, e qualche intriseco di Spiro Apostulos, e mio cognato stesso mi trattassero alle volte con qualche freddezza. Io non credeva di aver demeritato della loro amicizia; perciò non mi degnava neppure di rammaricarmene, ma uscii a dirne qualche cosa coll'Aglaura e costei si schivò con dir che suo marito avea spesso la testa negli affari, e non potea badare a feste e a cerimonie. Un giorno mi venne veduto in Piazza un certo muso ch'io non aveva incontrato mai senza alquanto rincrescimento; voglio dire il capitano Minato. Io cercava sfuggirlo, ma me lo impedì dieci pertiche lontano con un “ho!” di sorpresa e di piacere: e mi convenne trangugiare in santa pace un beverone infinito di quelle sue còrse castronerie. — A proposito! — diss'egli. — Son passato per Milano; me ne congratulo con voi. Anche voi siete passato colà a tempo per ereditare le mie bellezze. — Che bellezze mi tirate fuori? — Capperi, non è una bellezza la contessina Migliana?... Da quando io le feci fare il viaggio da Roma ed Ancona, la trovai un po' appassitella; ma così senza confronti è ancora un'assai bella donna. — Che?... La contessa Migliana è...? — È l'amica d'Emilio Tornoni, è il mio tesoretto del novantasei! Quanti anni sono passati! — Eh, giusto! È impossibile! Mi date ad intendere delle baie!... La vostra avventuriera non si chiamava così, e non possedeva né la fortuna né l'entratura nel mondo della contessa Migliana! — Oh in quanto ai nomi, ve l'assicura io che la Contessa non ne ha portato nessuno più d'un mese! Fu un delicato riguardo per ognuno de' suoi amanti. Quanto alle ricchezze, lo dovete sapere anche voi che la sua eredità non le toccò che pochi anni or sono. Del resto il mondo è troppo furbo per diniegare l'ingresso a chi sa pagarlo bene. Avrete veduto di qual razza di gente è ora circondata almeno nelle ore diplomatiche la signora Contessa: or bene, furono costoro che a prezzo d'un po' di vernice e di qualche elemosina per la pia causa, acconsentirono a porre un velo sul passato e a raccogliere la pecorella smarrita nel gran grembo dell'aristocrazia... come la chiamano a Milano?... dell'aristocrazia biscottinesca!... — E pertanto... — volli dir io. — E pertanto volevate dire che, essendo voi maggiordomo in casa sua... non so se mi spiego... ma non trovaste poi la pecorella così fida all'ovile da non perdersi anche talvolta in qualche pascolo romito, in qualche trastullo lascivetto e... — Signore, nessuno vi dà il diritto né di straziare l'onor d'una dama, né... — Signore, nessuno vi dà il diritto d'impedire che io parli quando parlano tutti. — Voi venite da Milano; ma qui a Venezia... — Qui a Venezia, signore, se ne parla forse più che a Milano!... — Come?... Spero che sarà una vostra fantasia! — La notizia è venuta a quanto si dice nel taccuino del consiglier Ormenta, il quale vi fece merito dei vostri amori come d'un'opportuna conversione alla causa della Santa Fede. — Il consiglier Ormenta, voi dite? — Sì, sì, il consiglier Ormenta! Non lo conoscete? — Pur troppo lo conosco! — E mi diedi a pensare perché, dopo avermi tanto dimenticato da non ravvisarmi più, si fosse poi dato attorno per seminare cotali spiacevoli ciarle. E non mi venne in capo che egli a sua volta si potesse credere non conosciuto da me, e che il mio nome caduto qualche volta di bocca alla Contessa lo avesse aiutato a mutare in certezza il sospetto della somiglianza. La gente del suo fare non altro cerca di meglio che spargere la diffidenza e la discordia; ecco chiarissime le cagioni del suo malizioso sparlare. E quanto al resto non m'importava un fico di saperne di meglio; tuttavia, persuasissimo che il Minato m'avesse reso un vero servigio coll'aprirmi gli occhi su quella mariuoleria, mi separai da lui con minor piacere del solito e tornai presso la Pisana per masticare meno amaramente la mia rabbia. Trovai quel giorno presso la signorina la visita di un tale che non mi sarei aspettato; di Raimondo Venchieredo. Dopo quanto avevamo discorso di lui, dopo le mire ch'io gli supponeva sul conto della Pisana, dopo le trame orditele contro a mezzo della Doretta e della Rosa, mi maravigliai moltissimo di trovarla in tal compagnia. Di più s'aggiungeva che sapendo ella l'inimicizia non mai spenta fra me e Raimondo, la doveva anche per riguardo mio tenerselo lontano. Il furbo peraltro non giudicò opportuno incommodarmi a lungo, e se la cavò con un profondo saluto che equivaleva ad un'impertinenza bell'e buona. Partito lui ci bisticciammo fra noi. — Perché ricevi quella razza di gente? — Ricevo chi voglio io! — Non signora, che non devi! — Vediamo chi mi potrà comandare! — Non si comanda, ma si prega! — Pregare s'affà a chi ne ha il diritto. — Il diritto io l'ho acquistato mi pare con molti anni di penitenza! — Penitenza grassa! — Cosa vorresti dire? — Lo so io, e basta! Così continuammo un pezzetto con quegli alterchi a monosillabi che sembrano botte e risposte a morsi e ad unghiate; ma non mi venne fatto cavar da quella bocca una parola di più. Me ne partii furibondo; ma con tutto il mio furore, la trovai tornando più fredda e ingrognata di prima. Non solamente non volle aprirsi meglio, ma schivava ogni discorso che potesse condurre ad una dichiarazione, e di amore poi non voleva sentirne parlare come d'un sacrilegio. Alla terza alla quarta volta si peggiorava sempre; m'incontrai ancora nel suo stanzino da lavoro con Raimondo che giocarellava dimesticamente colla cagnetta. E la cagnetta si mise ad abbaiare a me! Per una volta lo sopportai; ma alla seconda uscii affatto dai gangheri; al contegno altero e beffardo di Raimondo m'accorsi a tempo della bestialità, e scappai giù per la scala perseguitato dai latrati di quella sconcia cagnetta. Oh queste bestiole sono pur barbare e sincere! Esse fanno e ritirano, a nome delle padrone, dichiarazioni d'amore

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Argomenti: san marco,    degnevole angelo,    certo muso,    beverone infinito,    delicato riguardo

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