Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 246

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i suoi ultimi momenti. Dopo aver chiuso gli occhi a due tali amici mi parve che non era un peccato desiderare la morte; e mi levai col pensiero alla mia Pisana che forse mi contemplava dall'alto dei cieli, domandandole se non era tempo ch'io pure passassi a raggiungerla. Un'intima voce del cuore mi rispose che no: infatti altri tristissimi uffici mi restavano da compiere. Pochi giorni appresso il conte Rinaldo fu colto dal cholera che già cominciava la sua strage massime nel popolo affamato. Le bombe avevano accalcato la gente nei sestieri più lontani da terraferma, ed era uno spettacolo doloroso e solenne quella mesta pazienza sotto a tanti e così mortiferi flagelli. Il povero Conte era già agli estremi quand'io giunsi al suo capezzale; sua sorella, incurvata dagli anni e dai patimenti, lo vegliava con quell'impassibile coraggio che non abbandona mai coloro che credono davvero. — Carlino — mi disse il moribondo — ti ho fatto chiamare perché nei frangenti in cui mi trovo mi risovvenne della mia opera che corre pericolo di rimaner imperfetta. Or dunque l'affido a te; e voglio che tu mi prometta di stamparla in quaranta fascicoli nell'egual carta e formato del primo!... — Te lo prometto — risposi quasi con un singhiozzo. — Ti raccomando la correzione — mormorò il morente — e... se giudicassi opportuno... qualche cambiamento... Non poté continuare, e morì guardandomi fiso, e raccomandandomi di bel nuovo coll'ultima occhiata quell'unico frutto della sua vita. Io m'adoperai perché gli fossero resi onori funebri convenienti al suo merito; e raccolsi in casa mia la signora Clara che afflitta piucchemai dalla sua paralisi, era quasi impotente a muoversi da sola. Ma assai breve ci durò il contento di prestarle le cure più assidue ed affettuose che si potessero. Spirò anch'ella il giorno della Madonna d'agosto, ringraziando la Madre di Dio che la chiamava a sé nella festa della sua assunzione al cielo, e benedicendo Iddio perché i voti ch'ella avea pronunciati cinquant'anni prima per la salute della Repubblica di Venezia, e che le aveano costato tanti sacrifizi, avessero ricevuto un bel premio sul tramonto della sua vita. Io pensai allora a Lucilio; e forse vi pensava anch'ella con un sorriso di speranza; perché assai confidava nelle proprie preghiere, e più a mille doppi nella clemenza di Dio. Ai ventidue d'agosto fu firmata la capitolazione. Venezia si ritrasse ultima dal campo delle battaglie italiane, e come disse Dante: “A guisa di leon quando si posa”. Ma un ultimo dolore mi rimaneva; quello di vedere il nome di Enrico Cisterna sulla lista dei proscritti. Luciano ch'io aveva lungamente aspettato durante quei due anni s'era dimenticato affatto di noi; di Giulio aveva ricevuto una lettera da Roma nel luglio decorso, ma i disastri successivi mi lasciavano molto dubbioso sulla sua sorte; la Pisana avanzata nella gravidanza s'avviava col marito ai martirii dell'esiglio; partì con loro, sopra un bastimento che salpava per Genova, Arrigo Martelli che avea seppellito a Venezia il povero Rossaroll... Quanti sepolcri e quanti dolori viventi e lagrimosi sopra i sepolcri!... Restammo soli io e l'Aquilina oppressi costernati taciturni; simili a due tronchi fulminati in mezzo a un deserto. Ma la dimora di Venezia ci diventava ogni giorno più odiosa e insopportabile, finché di comune accordo ci trapiantammo in Friuli, nel paesello di Cordovado, in quella vecchia casa Provedoni, piena per noi di tante memorie. Là vissimo un paio d'anni nella religione dei nostri dolori; infine anch'essa la povera donna fu visitata pietosamente dalla morte. E rimasi io. Rimasi a meditare, e a comprendere appieno il terribile significato di questa orrenda parola: — Solo!... Solo?... ah no, io non era solo!... Lo credetti un istante; ma subito mi ravvidi; e benedissi fra le mie angosce quella santa Provvidenza che a chi ha cercato il bene e fuggito il male concede ancora, supremo conforto, la pace della coscienza e la melanconica ma soave compagnia delle memorie. Un anno dopo la morte di mia moglie ebbi la visita tanto lungamente sperata di Luciano e di tutta la sua famiglia: aveva due ragazzetti che parlavano meglio assai il greco che l'italiano, ma tanto essi che la loro madre mi presero a volere un gran bene, e fu per tutti assai doloroso il momento della separazione la quale Luciano avea fissato al sesto mese dopo il loro arrivo, e non fu possibile ottenere la protrazione d'un giorno. Egli era cosifatto; ma per quanti difetti abbia, gli è pur sempre mio figliuolo, e lo ringrazio di essersi ricordato di me, e penso con profondo dolore che non devo mai più rivederlo. Spero che la mia famiglia prospererà sempre nella sua nuova patria; ma nel ricordarmi quei due vezzosi nipotini non posso fare a meno di sclamare: perché non son essi Italiani! La Grecia non ha certo bisogno di cuori giovani e valorosi che la amino!... Giulio dopo la caduta di Roma mi avea dato novella di sé da molte stazioni del suo esiglio: da Civitavecchia, da Nuova York, da Rio Janeiro. Egli era esule pel mondo, senza tetto, senza speranza, ma superbo di aver lavato col sangue la macchia dell'onor suo, e di portar degnamente un nome glorioso ed amato. Ma poi tutto ad un tratto cessarono le lettere e soltanto ne ebbi contezza dai giornali, i quali lo nominavano fra i direttori di una nuova Colonia Militare Italiana che si formava nella Repubblica Argentina, nella provincia di Buenos Aires. Ascrissi adunque a infedeltà postali la mancanza de' suoi scritti, e attesi pazientemente che il cielo tornasse a concedermi quella consolazione. Ma un'altra non meno desiderata me ne fu concessa a quel tempo; voglio dire il ritorno in patria della Pisana e d'Enrico, con una vaga bamboletta che portava il mio nome e dicevano somigliasse a un ritratto fattomi a Venezia quand'era segretario della Municipalità. Allora solamente, coi miei figliuoli al fianco e colla Carolina sui ginocchi, mi sentii rivivere. Fu come una tiepida primavera per una pianta secolare che ha superato un rigidissimo inverno. Allora solamente, dopo quattr'anni ch'era tornato a Cordovado, ebbi il coraggio di visitar Fratta, e là passai coi nipoti del vecchio Andreini, già padri essi pure di numerosa figliuolanza, l'ottantesimo anniversario del mio ingresso in castello, quando vi era giunto da Venezia, chiuso in un paniere. Dopo il pranzo uscii soletto per rivedere almeno il sito dove già era stato il famoso castello. Non ne rimaneva più traccia; solamente qua e là alcuni ruderi fra i quali pascolavano due capre, e una fanciulla canterellava lì presso spiandomi curiosamente e sospendendo di filare. Ravvisai lo spazio del cortile e in mezzo ad esso la pietra sotto la quale avea fatto seppellire il cane da caccia del Capitano. Forse era l'unico monumento delle mie memorie che restasse intatto; ma no, m'inganno; tutto ancora in quei luoghi diletti mi ricordava i cari anni dell'infanzia e della giovinezza. Le piante la peschiera i prati l'aria ed il cielo mi menavano a rivivere in quel lontano passato. Sull'angolo della fossa sorgeva ancora alla mia fantasia il negro torrione, dove tante volte aveva ammirato Germano che caricava l'orologio; rivedeva i lunghi corritoi pei quali Martino mi conduceva per mano all'ora di coricarsi, e la sua romita cameretta dove le rondini non avrebbero più sospeso il loro nido. Mi sembrava veder passare sullo sterrato o Monsignore col breviario sotto l'ascella, o il grandioso carrozzone di famiglia con entro il Conte la Contessa e il signor Cancelliere, o il cavalluccio di Marchetto sul quale soleva arrampicarmi. Vedeva capitare ad una ad una le visite del dopopranzo, monsignore di Sant'Andrea, Giulio Del Ponte, il Cappellano, il Piovano, il bel Partistagno, Lucilio; udiva le loro voci tumultuare nel tinello intorno ai tavolini da gioco, e la Clara leggicchiare a mezza bocca qualche ottava dell'Ariosto sotto i salici dell'ortaglia. Succedevano poi gli inviti clamorosi de' miei

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