Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 63

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nei giorni del digiuno; ma Venezia ignorava allora qual penitenza le fosse preparata. Fra tanta spensieratezza, in mezzo ad una sì marcia inettitudine, non avea mancato chi, prevedendo confusamente le necessità dei tempi, richiamasse la mente della Signoria agli opportuni rimedii. Fors'anco i rimedi proposti non furono né opportuni né pari al bisogno; ma dovea bastare lo aver fatto palpare la piaga perché altri pensasse a farmaci migliori. Invece la Signoria torse gli occhi dal male; negò la necessità d'una cura dove la quiete e la contentezza indicavano non l'infermità ma la salute; non conobbe che appunto quelle sono le infermità più pericolose dove manca perfin la vita del dolore. Non molti anni prima l'Avogadore di Comune, Angelo Querini, avea sofferto due volte la prigionia d'ordine del Consiglio dei Dieci per aver osato propalarne gli abusi e le arti illegali con cui si accaparravano e si fingevano le maggioranze nel Maggior Consiglio. La seconda volta, dopo aver promesso di discorrere questa materia, fu carcerato anche prima che la promessa potesse aver effetto. Tale era l'indipendenza di una autorità semi–tribunizia, e tanto il valore e l'affetto consentitole; nessuno s'accorse o tutti finsero non s'accorgere della carcerazione di Angelo Querini, perché nessuno si sentiva voglioso di imitarlo. Ma quello era il tempo che le riforme avanzavano per forza. Nel 1779 a tanto era scaduta l'amministrazione della giustizia e la fortuna pubblica che anche il pazientissimo e giocondissimo fra i popoli se ne risentiva. Primo Carlo Contarini propose nel Maggior Consiglio la correzione degli abusi con opportuni cambiamenti nelle forme costituzionali; e la sua arringa fu così stringente insieme e moderata, che con maravigliosa unanimità fu presa parte di comandare alla Signoria la pronta proposta dei necessari cambiamenti. Si nota in quelle discussioni che quello che ora si direbbe il partito liberale tendeva a ripristinare tutto il patriziato nell'ampio esercizio della sua autorità, sciogliendo quel potere oligarchico che s'era concentrato nella Signoria e nel Consiglio dei Dieci per una lunga e illegale consuetudine. Miravano apparentemente a riforme di poco conto; in sostanza si cercava di allargare il diritto della sovranità, riducendolo almeno alle sue proporzioni primitive, e insistendo sempre sulla massima da gran tempo dimenticata, che al Maggior Consiglio si stava il comandare e alla Signoria l'eseguire: in ogni occasione si ricordava non aver questa che un'autorità demandata. I partigiani dell'oligarchia sbuffavano di dover sopportare simili discorsi; ma la confusione e la moltiplicità delle leggi porgeva loro mille sotterfugi per tirar la cosa in lungo. La Signoria fingeva di piegarsi all'obbedienza richiesta; indi proponeva rimedii insufficienti e ridicoli. Dopo un anno di continue dispute, nelle quali il Maggior Consiglio appoggiò sempre indarno il voto dei riformatori, si trasse in mezzo il Serenissimo Doge. La sua proposta fu di delegare l'esame dei difetti accusati negli ordini repubblicani a un magistrato di cinque correttori; e la convenienza di un tal partito, che si riduceva a nulla, fu da lui appoggiata alle ragioni stesse con cui un accorto politico avrebbe provato la necessità di riformar tutto e subito. Il Renier parlò a lungo delle monarchie d'Europa, fatte potenti a scapito delle poche repubbliche; da ciò dedusse il bisogno della concordia e della stabilità. “Io stesso”, aggiungeva egli nel suo patriarcale veneziano “io stesso essendo a Vienna durante i torbidi della Polonia udii più volte ripetere: Questi signori Polacchi non vogliono aver giudizio; li aggiusteremo noi . Se v'ha Stato che abbisogni di concordia, gli è il nostro. Noi non abbiamo forze; non terrestri, non marittime, non alleanze. Viviamo a sorte, per accidente, e viviamo colla sola idea della prudenza del governo.” Il Doge parlando a questo modo mostrava a mio credere più cinismo che coraggio; massime che per solo riparo a tanta rovina non sapea proporre altro che l'inerzia, e il silenzio. Gli era un dire: “Se smoviamo un sasso, la casa crolla! non fiatate non tossite per paura che ci caschi addosso”. Ma il confessarlo in pieno Consiglio, lui, il primo magistrato della Repubblica, era tale vergogna che doveva fargli gettare come un'ignominia il corno ducale. Almeno il procurator Giorgio Pisani avea gridato che si avvisasse ai cambiamenti necessari negli ordini repubblicani, e che se fossero giudicati impossibili ad effettuarsi, se ne consegnasse in pubblico atto la memoria, perché i posteri compiangessero l'impotente sapienza degli avi, ma non ne maledicessero la sprovvedutezza, non ne sperdessero al vento le ceneri. Il Maggior Consiglio accettò invece il parere del Doge; e i cinque correttori furono eletti, fra cui lo stesso Giorgio Pisani. Quando poi sopito quel momentaneo fermento gli Inquisitori di Stato vennero alle vendette, e senza alcun rispetto ai decreti sovrani confinarono per dieci anni il Pisani nel castello di Verona, mandarono il Contarini a morir esule alle Bocche di Cattaro, e altri molti proscrissero e condannarono, non fu udita voce di biasimo o di pietà. Fu veduto, esempio unico nella storia, un magistrato di giustizia condannar per delitto quello che il Supremo Consiglio della Repubblica avea giudicato utile, opportuno, decoroso. E questo sopportare senza risentirsi lo sfacciato insulto; e lasciar languenti nell'esiglio e nelle carceri coloro ai quali avea commesso l'esecuzione dei proprii decreti. Cotale era l'ordinamento politico, tale la pazienza del popolo veneziano. In verità, piuttostoché vivere a questo modo, o per accidente, come diceva il Serenissimo Doge, sarebbe stata opera più civile, prudente insieme e generosa, l'arrischiar di morire in qualunque altra maniera. Di questo passo si toccò finalmente il giorno nel quale la minaccia di novità suonò con ben altro frastuono che colla debole voce di alcuni oratori casalinghi. Il dì medesimo che fu decretata a Parigi la convocazione degli Stati generali, il 14 luglio 1788, l'ambasciatore Antonio Cappello ne significò al Doge la notizia: aggiungendo considerazioni assai gravi sopra le strettezze nelle quali la Repubblica poteva incorrere, e i modi più opportuni da governarla. Ma gli Eccellentissimi Savi gettarono il dispaccio nella filza delle comunicazioni non lette; né il Senato ne ebbe contezza. Bensì gli Inquisitori di Stato raddoppiarono di vigilanza; e cominciò allora un tormento continuo di carceramenti, di spionaggi, di minaccie, di vessazioni, di bandi che senza diminuire il pericolo ne faceva accorgere l'imminenza, e manteneva insieme negli animi una diffidenza mista di paura e di odio. Il conte Rocco Sanfermo esponeva intanto da Torino i disordini di Francia, e le segrete trame delle Corti d'Europa; Antonio Cappello, reduce da Parigi, instava a viva voce per una pronta deliberazione. Il pericolo ingrandiva a segno tale, che non era fattibile sorpassarlo senza dividerlo con alcuno dei contendenti. Ma la Signoria non era avvezza a guardare oltre l'Adda e l'Isonzo: non capiva come in tanta sua quiete potessero importarle i tumulti e le smanie degli altri; credeva solo utile e salutare la neutralità non prevedendo che sarebbe stata impossibile. Crescevano i fracassi di fuori; le mormorazioni, i timori, le angherie di dentro. Il contegno del Governo sembrava appoggiarsi ad una calma fiducia in se stesso; ed uno per uno tutti governanti avevano in cuore l'indifferenza della disperazione. In tali condizioni molti vi furono che più accorti degli altri si cavarono d'impiccio, partendo da Venezia. E così rimasero al timone della cosa pubblica i molti vanagloriosi, i pochissimi studiosi del pubblico bene, e la moltitudine degli inetti, degli spensierati e dei pezzenti. L'Eccellentissimo Almorò Frumier, cognato del Conte di Fratta, possedeva moltissime terre, e una casa magnifica a Portogruaro. Egli era fra quelli che senza

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Argomenti: debole voce,    supremo consiglio,    momentaneo fermento,    tormento continuo

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