Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 221

Testo di pubblico dominio

comanda alla natura sforzi incredibili. Cercate, studiate, tentate: mai causa più giusta, mai impresa più alta e generosa meritò i prodigi della vostra scienza. Salvatela, per carità, salvatela!... — Avete dunque indovinato tutto; — rispose Lucilio dopo un momento di pausa — l'anima sua non è più tra noi; il corpo vive, ma non so nemmeno io il perché. Salvatela, voi mi dite, salvatela!... E chi vi dice che la provvida natura non la salvi raccogliendola nel suo grembo?... Molto si può tentare contro le malattie della carne e del sangue; ma lo spirito, Carlo? dove sono i farmaci che guariscon lo spirito, dove gli istrumenti che ne tagliano la parte incancrenita per prolungar vita alla sana, dove l'incanto che lo richiami in terra quando una virtù irresistibile lo assorbe a poco a poco in quello che Dante chiamava il mare dell'essere?... Carlo, voi non siete un fanciullo, né io un ciarlatano; voi non volete esser ingannato, per quanto la presente debolezza vi renda più care le false e fuggitive illusioni che l'inesorabile realtà. In questo mondo si viene quasi colla certezza di veder morire il padre e la madre: solo chi paventa la morte per sé, deve disperarsi dell'altrui; la morte d'un amico fa più male a noi per la compagnia che ci ruba che non a lui per la vita che gli toglie. Io e voi dobbiamo, mi pare, conoscer la vita, e stimarla adeguatamente al suo giusto valore. Compiangiamo sì la nostra condizione di mortali, ma sopportiamola forti e rassegnati; non siam tanto egoisti da desiderare altrui un prolungamento di noie di mali di dolori per servire alla nostra utilità, per iscongiurare quella sciocca paura che hanno i fanciulli di rimaner soli nelle tenebre. Le tenebre la solitudine sono il sepolcro; entriamo coraggiosamente nel gran regno delle ombre; vivi o morti, soli dobbiamo restare; dunque non pensiamo ad altro che ad addolcire agli amici il dolore della partenza! Io non sono un medico che crede aver sviscerato tutti i segreti della natura per aver veduto palpitare qualche nervo sotto il coltello anatomico: v'è qualche cosa in noi che sfugge all'esame del notomista e che appartiene ad una ragione superiore perché colla nostra non siamo in grado di capirla. Confidiamo a quel supremo sentimento di giustizia che sembra esser l'anima eterna dell'umanità il destino futuro ed imperscrutabile di quelli che si amano. La scienza, le virtù, i doveri della vita si riassumono in un'unica parola: Pazienza!... — Pazienza! — io soggiunsi, più avvilito che confortato da questi freddi ma inespugnabili ragionamenti. — Pazienza è buona per sé; ma per gli altri?... Avreste voi, Lucilio, la viltà di consigliarmi pazienza pei mali ch'io ho cagionato, per le sventure di cui il rimorso non cesserà mai di perseguitarmi?... Ma non vedete, non comprendete il dolore senza fine e senza speranza che mi strazia le viscere, al solo pensiero che io, io solo abbia affrettato d'un giorno la partenza d'un'anima sì generosa e diletta?... La morte, voi dite, è necessità. Ben venga la morte!... Ma l'assassinio, Lucilio, l'assassinio di quella sola creatura che vi ha amato più di se stessa, più della vita, più dell'onore, oh questo è un delitto che non ha per iscusa la necessità né per espiazione la pazienza. Sia per lavarlo che per dimenticarlo fa d'uopo il sacrifizio di un'altra vita; la morte sola salda il debito della morte. — La morte anzi non salda nulla, credetelo a me. La morte come consolazione non può tardarvi a lungo, e l'affrettarla sarebbe fuggire dalla penitenza; come oblio sareste tanto pusillanime da cercarla?... Io non sono di quei prudenti idolatri della vita che nella moglie nei figliuoli nella patria si preparano altrettante scuse per non arrischiarla neppur al pericolo d'un'infreddatura: ma quando ad una virtù dubbia ed inutile s'oppongono virtù certe, utilissime, generose, quando le passioni vi lasciano il tempo di deliberare, oh allora, Carlo, la famiglia, la patria, l'umanità vi comandano di non disertare, di combattere fino all'estremo!... — No! è inutile sperarlo! io non avrò più forza di combattere! Meglio è sbarazzare il campo d'un inutile ingombro. Ogni altro affetto mi sarebbe un rimorso; son troppo infelice, Lucilio! Avrò veduto morire colei alla quale avrei dovuto abbellire la vita colle gioie più sante dell'amore, e della devozione! — Ed io dunque, ed io? — sclamò con un ruggito Lucilio, afferrandomi il braccio convulsivamente. — Ed io, cosa credete voi, che sia poco infelice?... Io che ho veduto disseccarsi l'anima dell'anima mia, io che ho assistito ancora e bollente di passioni al funerale d'ogni mia speranza, io che non ho veduto la morte di colei che mi amava, ma il suicidio dell'amor suo, io che ho vissuto trentacinque anni vagando disperato col pensiero fra le rovine della mia fede e chiedendo indarno alla vita il lampo d'un sorriso, io che ho avventato freneticamente ogni virtù del mio ingegno, ogni potenza del mio spirito a scrollare invano le porte d'un cuore che era mio, io che ho sognato di sconvolgere il mondo per carpire dalla confusione del caos quell'unico bene che desiderava e che m'era sfuggito, io che ho veduto tutta la forza d'una attività senza pari accasciarsi sconfitta dinanzi ad una indifferenza forse bugiarda, io che vedeva il paradiso non più discosto da me che non lo siano fra loro le anime di due amanti, e non ho potuto giungervi, non ho potuto dissetarmi queste avide labbra d'una stilla sola di felicità, perché vi si opponeva la memoria di tre parole imprudenti spergiure, io dunque che avea trovato l'anima più pura il cuore più delicato e sublime che sia mai stato quaggiù, e questa arra quasi infallibile di felicità la vidi mutarsi in mia mano senz'alcuna ragione in un veleno mortale e senza rimedio, credete voi che io non abbia avuto motivi bastevoli e volontà e forza di uccidermi?... Perché, ditelo voi, perché ostinarmi a rimanere fra gli uomini, quando la creatura più virtuosa e perfetta, colei che sola io avea riputata degna dell'amor mio, col tradimento colla crudeltà ricompensava le mie adorazioni?... Perché affaticarsi nel creare una patria a questa umanità che nelle sue migliori virtù mi scopriva agguati sì perfidi e micidiali?... Perché combattere, perché studiare, perché guarire, perché vivere?... Volete saperlo, Carlo, questo perché?... Perché mi mancava una certezza. Perché l'uomo fornito di ragione non deve piegarsi ad atto alcuno che non sia ragionevole; perché non era né poteva esser certo che la morte mia sarebbe stata giusta ed utile a me od agli altri; mentre la vita invece poteva esserlo in qualche maniera, e deferiva alla natura una sentenza ch'io non mi sentiva in grado di pronunciare. Ecco perché vissi, perché cercai con ardore sempre crescente la verità e la giustizia, perché pugnai per esse per la libertà per la patria; perché curvai la mia mente a creder un bene quello che dal consenso universale era creduto un bene, e mi studiai di rendere la pace agli afflitti, la speranza agli increduli, agli infermi la salute. La natura ci dà la vita indi ce la toglie; siete voi tanto sapiente da comprendere e giudicare le leggi di natura? Riformatele mutatele giudicatele a vostro talento!... Ma non vi sentite quest'autorità, questa potenza?... Ubbidite allora. Infelice martoriatevi, innocente soffrite, colpevole pentitevi e riparate: ma siate ragionevole e vivete. — Sì, Lucilio! Vivano pure gli innocenti nel dolore, gli infelici nel martirio e i colpevoli nell'espiazione; sopportino tutti la vita coloro che nella ragione non trovano bastevoli argomenti per poterla distruggere. Ma io, Lucilio, io son fuori della vostra legge; io morirò!... Reo lo sono e pur troppo, e d'un delitto tale che è più infame più mostruoso a parer mio dello stesso matricidio. Se la natura mi comanda ch'io viva, sorga ella dunque e m'ispiri il modo di ripararlo!... Oh! ai mali senza rimedio v'è un unico scampo, e voi lo

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Argomenti: tre parole,    virtù irresistibile,    presente debolezza,    ragione superiore,    supremo sentimento

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