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Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 215

Testo di pubblico dominio

mi nascondesse e che le lezioni le rubassero tutto quel tempo che rimaneva fuori di casa. Tuttavia a poco a poco ella non ebbe più il coraggio di dirmi che la stava benissimo e che non invidiava gli anni più floridi di sua gioventù; io la sentiva ansare faticosamente dopo aver fatto le scale, tossire sovente, e qualche volta anche sospirava a sua insaputa con tanta forza che la compassione mi squarciava le viscere. Principiando il secondo anno del nostro esiglio, ammalò gravemente; quali fossero allora i tormenti la disperazione del povero cieco, non potrei certo descriverli, poiché ancora mi meraviglio di esserne uscito vivo. Di più mi toccava soffocar tutto per non crescerle affanno colle mie smanie, ma ella veniva incontro a' miei nascosti dolori coi più delicati conforti che si potessero immaginare. Si sentiva morire e parlava di convalescenza; aveva il fuoco d'una febbre micidiale nelle vene e compativa il mio male come il suo non fosse nemmen degno che se ne parlasse. Divisava sempre di uscire la settimana ventura; pensava quali creditucci aveva nel tale e nel tal luogo per far fronte alle maggiori spese e ai mancati proventi di quel frattempo, si studiava insomma di farmi dimenticare la sua malattia o persuadermi che credeva ad un vicinissimo miglioramento. Io passava cionullameno le notti ed i giorni al suo capezzale, tastandole ogni poco il polso e interrogando con intento orecchio il suo respiro greve ed affaticato. Oh quanto avrei pagato io un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze, per capacitarmi di quello che doveva credere alle sue parole pietosamente bugiarde! Con quanto sgomento non seguiva io il medico fin sul pianerottolo pregandolo e scongiurandolo che mi dicesse la verità! Ma più d'una volta sospettai che ella ci venisse dietro appunto per impedire al medico che disubbidisse alla sua raccomandazione e tutto mi dichiarasse il pericolo del suo stato!... Quando poi io non voleva ad ogni costo acchetarmi alle sue proteste, ell'aveva ancora il coraggio di adirarsi, di pretendere che le credessi per forza e che non mi martoriassi con paure immaginarie. Oh ma io non restava ingannato da queste frodi!... Il cuore mi ammoniva della sciagura che ci minacciava, e le pozioni che il medico ordinava non erano tali che si convenissero ad un lieve incommodo passeggiero. Eravamo allo stremo d'ogni cosa; mi convenne vendere le biancherie i vestiti; avrei venduto me stesso per procurarle un momentaneo sollievo. Dio finalmente ebbe compassione di lei e delle mie orribili angosce. Il malore fu domato se non vinto; l'ardore febbrile si rallentò nel suo corpo estenuato; riebbe a poco a poco le forze. Si alzò dal letto, volle subito licenziar la fantesca per risparmiare la spesa, e accudir lei alle faccende di casa; io me le opposi quanto seppi, ma la volontà della Pisana era irremovibile; né malattie né disgrazie né persuasioni né comandi valsero mai a piegarla. I primi giorni che uscì di casa non mi lasciai vincere neppur io e volli accompagnarla: ma ella se ne stizziva tanto che mi convenne anco di questo accontentarla e lasciare ch'ella uscisse sola. — Ma Pisana — le andava io dicendo — non mi vuoi dar ad intendere che devi raccogliere qua e là qualche piccolo credito delle tue lezioni? Andiamo dunque, io ti accompagnerò dove vorrai. — Bella guida — mi rispondeva celiando — bella guida quella d'un cieco! Davvero che io ho tutta la voglia di diventar ridicola mostrandomi per le case a questo modo!... E poi chi sa cosa andrebbero a pensare! No, no, Carlo. Gli Inglesi sono scrupolosi: te lo dico e te lo ripeto che non mi farò vedere che sola. Adunque pur brontolando e per nulla persuaso della verità di quanto mi diceva, io dovetti lasciarla fare a suo talento. Ricominciò daccapo colle sue lunghe assenze, durante le quali io stava sempre col cuore sospeso, e dubitando di non vederla tornare mai più. Infatti alle volte tornava a casa tanto esausta di forze che per quanto si sforzasse non giungeva a nascondermi il suo sfinimento. Io ne la rimproverava dolcemente, ma poi mi convenne tacere affatto perché ogni più lieve rimbrotto le dava tanta stizza che per poco non l'assalivano le convulsioni. Non credo che fosse possibile immaginare miseria maggior della mia. Londra, voi lo sapete, è grande; ma le montagne stanno e gli uomini girando s'incontrano. Così dunque avvenne che la Pisana s'incontrò una mattina nel dottor Lucilio il quale io supponeva sì che fosse a Londra, ma non avea voluto rivolgermi a lui, per la freddezza dimostratami tanto ingiustamente per l'addietro. S'incontrò adunque colla Pisana; costei gli raccontò le mie vicende e le sue, e la cagione per la quale allora eravamo a Londra sprovvisti di tutto. Sembra che la mia posizione lo persuadesse della falsità di quelle accuse ch'egli in altri tempi avea ritenute vere a mio discapito. Infatti mi venne a trovare e mi dimostrò tanta amicizia quanta forse mai non me ne aveva mostrata. Era un bel modo di chieder perdono della lunga ingiustizia; né di più io poteva pretendere dall'indole orgogliosa di Lucilio. Bensì mi riconfortai assaissimo di quell'incontro, e lo presi per una promessa della Provvidenza che le sorti nostre avessero a cambiare in meglio. Non ebbi che a convincermi sempre di più di questa felice persuasione per la bella piega che parvero prendere allora tutto d'un tratto le cose nostre. Prima di tutto Lucilio esaminò attentamente i miei occhi, e dettomi che erano coperti da caterratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l'operazione della quale non dubitava punto che sarebbe riescita a meraviglia, mi si rimise l'anima in corpo. Oh il gran dono è la luce! Non l'apprezza mai degnamente che chi l'ha perduta. Indi il dottore mi chiese notizia di me della mia famiglia e come stavano le cose, e chiarito di tutto mi diede lusinga che egli avrebbe fatto venire in Inghilterra l'Aquilina e i figliuoli miei, dove avrebbe pensato a stabilirmi in modo che fossero piuttosto utili pel futuro che costosi al presente. Egli aveva una gran clientela di Lordi e di principi dei quali governava a suo grado l'influenza; e le rimostranze che si erano udite al Parlamento per le deliberazioni del Congresso di Verona furono, credo, inspirate da lui. Io voleva ritrarmi per le grandi spese che a ciò si dovevano incontrare, e per le quali certamente la mia borsa era tutt'altro che preparata; e poi, debbo confessarvelo, aveva quasi vergogna di manifestare questa gran premura di avere presso di me la mia famiglia, parendomi quasi far onta alla devozione unica e generosa della Pisana. Rimasti soli un momento, soffiai questo mio scrupolo al dottore. — No, no — mi rispose egli mestamente — gente di casa vi sarà necessaria; credete che ne proverrà gran bene anche alla contessa Pisana. Io voleva che mi chiarisse meglio questo enigma, ma egli se ne schivò soggiungendo che certo la cura d'un cieco doveva pesare assai ad una signora avvezza alle delicature veneziane e che l'aiuto d'un'altra donna l'avrebbe alleggerita di molto. — Ditemi la verità, Lucilio — soggiunsi io — la salute della Pisana non c'entra per nulla in queste vostre considerazioni? — C'entra sì... perché potrebbe guastarsi. — Dunque, adesso che parliamo la trovate buona? — Mio Dio, si può mai dire quando la salute sia buona o cattiva? La natura ha i suoi segreti e non è dato neppur ai medici indovinarli. Vedete, io son invecchiato nella professione, eppure anche ieri mattina lasciai un malato che mi sembrava in via di miglioramento e a sera lo trovai morto. Sono schiaffi che la natura regala a chi vuol conoscerla troppo addentro e violare la sua misteriosa verginità. Credetelo, Carlo, la scienza è proprio vergine ancora, finora non l'abbiamo che carezzata sulle guance! — Oh non credete neppur nella scienza! Ma in cosa credete dunque? — Credo nel futuro della scienza, se almeno qualche cometa o il raffreddamento della corteccia terrestre non verrà a

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Argomenti: secondo anno,    febbre micidiale,    intento orecchio,    respiro greve,    piccolo credito

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