Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 232

Testo di pubblico dominio

guerra e dall'imbrunire della notte era fatta più scura e deserta che mai. Domandare d'un volontario ferito era lo stesso che farsi chiudere la porta in faccia: alla fine tornai allo Spedale divisando chiederne conto ai medici, uno dei quali doveva pur essere chiamato a curarlo in qualunque luogo egli si trovasse, se pur non lo lasciavano morire come un cane. Benché mi sconfidasse il pensiero che non tutti i medici di Rimini frequentavano certo l'Ospitale, pure non trovando di meglio m'appigliai a questo partito, ed ebbi a lodarmene perché un giovine chirurgo intenerito alle mie preghiere mi tirò prudentemente da un lato, e, dettomi che lo aspettassi in istrada, soggiunse che avrei trovato di lì ad una mezz'ora quello di cui cercava. — Oh per carità, in che stato si trova egli? — sclamai. — Per carità, mi dica il vero, signor dottore; e non voglia ingannare un misero padre! — State quieto: — soggiunse egli — la ferita è profonda ma non dispero di guarirlo. Egli è in buone mani e miglior assistenza non avrebbe se avesse al capezzale una sorella e una madre. Di meno egli non meritava: intanto, vi prego, aspettatemi, e in pochi minuti sono con voi. Prudenza sopratutto, perché son cose dilicate, e viviamo in tempi difficili. Io non fiatai; scesi pian piano le scale, e quando fui in istrada ne andai su e giù, finché vidi uscire il dottore. Allora egli mi condusse in una casa di modesta apparenza, ove poiché ebbe preparato l'animo di mio figlio, mi introdusse nella camera ov'egli giaceva. Vi dica chi può la dolcezza di quei primi abbracciamenti! certo chi non fu padre non potrà nemmeno immaginarsela. Allora mi toccò confermare quello che sempre aveva creduto, cioè che se le donne non fossero al mondo per generarci, Dio le avrebbe dovute regalare agli uomini per infermiere. Una zitella piuttosto attempata, maestra di cucire che appena arrivava a tempo di campare la vita, aveva raccolto sulla via il mio Donato, e prestatogli tali cure che non mentiva il dottore dicendo che migliori né più affettuose non le avrebbero prestate una sorella o una madre. Io ringraziai più a lagrime che a parole la buona giovine, e Donato si univa con me nel manifestarle la sua riconoscenza; ma ella si schermiva rispondendo che non aveva fatto più di quanto era debito di cristiana carità, e raccomandava al ferito di pensare a sé e di non agitarsi, perché gliene poteva derivare qualche grave nocumento. Il dottore esaminò la piaga, a trovatala in via di miglioramento si partì raccomandando anch'esso che non tenessimo troppo occupato l'infermo in parole; ma lo si lasciasse riposare che aveva buonissime speranze. Non tardai a partecipare queste buone novelle all'Aquilina e pochi giorni dopo ne ebbi in risposta che avevano bastato per guarirla affatto e che ci aspettavano a braccia aperte non appena Donato fosse in grado d'imprendere il viaggio. Intanto io aveva saputo da lui il motivo principale della sua repentina deliberazione. Ed erano state le esageratissime calunnie da lui udite in casa Fratta a danno dei repubblicani delle Romagne. — Tante parolacce — soggiunse egli — mi rivoltarono lo stomaco, e perché non mi avea dato il cuore di rintuzzarle, mi decisi di far meglio e di mostrare col fatto in qual conto le tenessi!... — Oh, figliuolo mio! — sclamai — che tu sia benedetto. L'uomo vecchio risorgeva completamente in me. I giorni precedenti, assistendo alla penosa malattia di mio figlio, di gran cuore maladiceva fra me e me tutte le rivoluzioni: e solamente mi pentiva di queste maledizioni pensando che mia moglie avrebbe gridato anco lei per lo stesso verso; e siccome io l'aveva tacciata alcune volte di dappocaggine, non voleva darmi la zappa sui piedi. Ad ogni modo toccava al malato rianimare il sano; e così infatti m'intervenne. La guarigione andò per le lunghe più di quanto il medico si immaginava: e solamente in maggio potemmo metterci in viaggio a piccole giornate verso Bologna. La buona maestra ebbe una ricompensa, non adeguata al suo merito ma alle nostre condizioni, ed essendovi un giovine che l'amava e che l'avrebbe sposata senza la loro estrema povertà, io mi confido averle procurato maggior bene che per solito non si ottenga col danaro. A Bologna si fece sosta parecchi giorni, e vi rappiccai amicizia con molte vecchie conoscenze; trovai molti morti, molti padri di famiglia che al tempo della mia intendenza pendevano dalla mammella, e molte belle mammine che io avea fatto saltare sulle ginocchia. Ahimè! le belle che avea corteggiato durai fatica a riconoscerle; e per molti giorni non fui capace di guardarmi nello specchio. Bologna non era a quei giorni né affollata né allegra, ma trovai gli stessi cuori, l'ugual gentilezza, e cresciute a mille tanti la sodezza e la concordia. Non si viveva più nella confusione e nell'ansietà d'un tempo; tutto era chiaro e lampante e solamente aveano mancato le forze; ma la speranza perdurava. E non dico se a torto o a ragione, ma mi pregio di raccontare questa prova di costanza ch'ebbi sotto gli occhi. Giunti a Venezia, lascio pensare a voi la consolazione dell'Aquilina, e la gioia di Donato! Ma la salute di questo, che si sperava dovesse ristabilirsi affatto nell'aria natale, decadde anzi prontamente. La ferita diede prima sentore di volersi riaprire, indi di far sacca internamente: dei medici chi opinava che fosse leso l'osso e chi d'una scheggia di mitraglia rimasta in qualche cavità. Tutti eravamo inquieti, afflitti, agitati. Il solo malato allegro sereno ci confortava tutti ridendo assaissimo della burla da lui accoccata ai frequentatori di casa Fratta, e godendo di udir narrare da Bruto le grandi boccacce ch'essi ne avevano fatte. Il dottor Ormenta, reduce da poco da Roma con non so quante pensioni ed onorificenze, avea sciolto la quistione sentenziando: tale il padre tale il figlio. Io per me era più disposto a insuperbire che ad offendermi d'un cotal raffronto; e certamente non chiesi conto al sanfedista di cotali parole che forse egli credette ingiuriose all'ultimo segno. D'altra parte pur troppo era occupato di più gravi dolori. Donato andò peggiorando sempre e alla fine si morì sullo scorcio dell'autunno. Fra tutte le sciagure ch'ebbi a sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana, fu la più atroce ed inconsolabile. Tuttavia il mio dolore fu un nulla appetto alla disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò più la morte di Donato come se appunto io ne fossi stato il carnefice. E sì che ella piuttosto ne era stata la causa innocente, esponendolo a dover tollerare una contraddizione, alla quale contraddisse egli poi generosamente versando il suo sangue alla battaglia di Rimini. Invece ella continuò a praticare in casa Fratta e a menarvi gli altri due nostri figliuoletti; e quando io ne la biasimava ricordandole sommessamente il caso di Donato, ella mi rimbeccava stizzosamente che quel tristo caso non avrebbe amareggiato la sua vita, se io colle mie tirate liberalesche non avessi guastato il buon frutto che il giovine traeva dalla conversazione di casa Fratta. Come vedete, o per influenza dell'età, o delle amicizie, o per tenerezza materna, si faceva codina ogni giorno più quella buona donna. Ma io confidava nel proverbio che sangue non è acqua, e che i miei figli non avrebbero partecipato di quella curiosa malattia. Bensì non era d'una tal'indole da oppormi a mano armata ai suoi desiderii, e lasciavala fare a suo modo; rampognandola con molta soavità solamente allora quando la piccola Pisana era colta in flagranti di bugia, o il Giulietto imbizzarriva di essere corretto, e piuttosto che confessare un mancamento si sarebbe lasciato pestar nel mortaio. Io le chiedeva se l'impostura la superbia e l'ostinazione fossero per caso i frutti di quel suo nuovo metodo di educazione. Ella mi rispondeva che si accontentava meglio d'aver figliuoli orgogliosi e bugiardi, che di assassinarli colle sue proprie mani, e che badassi a me, e che

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Argomenti: tristo caso,    nuovo metodo

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