Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 11

Testo di pubblico dominio

a qualche dottorino, a qualche abatucolo, a qualche poeta di Portogruaro che non mancava mai di accorrere all'odor della sagra. In fin di tavola si usava improvvisare qualche sonetto, di cui forse il poeta aveva a casa lo scartafaccio e le correzioni. Ma se la memoria gli falliva non mancava mai la solita chiusa di ringraziamenti e di scuse per la libertà che la compagnia s'era permessa, di correre in frotta a bere il vino e a lodar i meriti infiniti del Conte e della Contessa. Quello che più di sovente cascava in questa necessità, era un avvocato lindo e incipriato che nella sua gioventù avea fatto la corte a molte dame veneziane, e viveva allora di memorie e di cavilli in compagnia della massaia. Un altro giovinastro chiamato Giulio Del Ponte che capitava sempre insieme con lui e si piccava di misurar versi più pel sottile, si godeva di fargli perdere la bussola empiendogli troppo sovente il bicchiere. La commedia finiva in cucina con grandi risate alle spalle del dottore, e il giovinotto ch'era stato a Padova se ne intendeva tanto bene che gli restava in grazia meglio di prima. Costui e un giovine pallido e taciturno di Fossalta, il signor Lucilio Vianello, sono i soli che fin d'allora mi rimangono in memoria di quella ciurma semiplebea. Fra i cavalieri, un Partistagno, parente forse di quello del Messer Grande, mi sta ancora dinanzi colla sua grande figura ardita e robusta, e un certo altiero riserbo di modi che assai contrastava coll'avvinazzata licenza dei più. E fin d'allora mi ricorda aver notato fra costui e il Vianello certi sguardi di sbieco che non dinotavano esser fra loro molto buon sangue. E tuttavia erano i due che meglio avrebbero dovuto intendersela fra loro, essendo tutto il resto un'egual feccia di spensierati e di furbacchioni. Quand'io cominciai ad aver ragione di me stesso e a far istizzire i polli nel cortile di Fratta, l'unico figliuolo maschio del Conte era già da un anno a Venezia presso i padri Somaschi ov'era stato educato suo padre: perciò di lui non mi rimane memoria, riguardante quel tempo, se non per qualche scappellotto ch'egli mi avea dato prima di partire, per farmi provare la sua padronanza; e sì che allora io era un bambino che a stento rosicchiava il pane. Il vecchio Martino pigliò fin d'allora le mie difese; e mi sovviene ancora d'una tirata d'orecchie da lui data di soppiatto al padroncino, per la quale questi tirò giù strillando i travi della casa: e Martino n'ebbe dal Conte una buona lavata di capo. Fortuna ch'era sordo! Quanto alla Contessa ella non compariva mai in cucina se non due volte il giorno nella sua qualità di suprema direttrice delle faccende casalinghe; la prima il mattino a distribuire la farina, il butirro, la carne e gli altri ingredienti bisognevoli al vitto della giornata; la seconda dopo l'ultima portata del pranzo a far la parte della servitù dalle vivande rimandate dalla mensa padronale e a riporre il resto in piatti più piccoli per la cena. Ella era una Navagero di Venezia, nobildonna lunga arcigna e di breve discorso, che fiutava tabacco una narice per volta e non si moveva mai senza il sonaglio delle sue chiavi appeso al traversino. L'aveva sempre in capo una cuffietta di merlo bianco fiocchettata di rosa alle tempie come quella d'una sposina; ma io credo non la portasse per vanagloria ma unicamente per abitudine. Una smaniglia di spagnoletto le pendeva dal collo sul fazzoletto nero di seta, e sosteneva una crocetta di brillanti, la quale a dir della cuoca avrebbe fornito la dote a tutte le ragazze del territorio. Sul petto poi, legato in uno spillone d'oro, aveva il ritratto d'un bell'uomo in parrucchino ad ali di piccione, che non era certo il suo signor marito; poiché questo aveva un nasone spropositato e quello invece un nasino da buffetti, un vero ninnoletto da fiutar acqua di rose ed essenze di Napoli. A dirla schietta come l'ho saputa poi, la nobildonna non si era piegata che a malincuore a quel matrimonio con un castellano di terraferma; ché le sembrava di cascare nelle mani dei barbari, avvezza com'era alle delicature ed agli spassi delle zitelle veneziane. Ma obbligata a far di necessità virtù, l'aveva cercato rimediare a quella disgrazia col tirare di tempo in tempo suo marito a Venezia; e là si era vendicata del ritiro provinciale cogli sfoggi, colle galanterie, e col farsi corteggiare dai più avvenenti damerini. Il ritratto che portava al petto doveva essere del più avventurato fra questi; ma dicevano che quel tale le fosse morto d'un colpo d'aria buscato di sera andando in gondola con lei; e dopo non ne avea più voluto sapere ed erasi ritirata per sempre a Fratta con grande compiacenza del signor Conte. Quando questo atroce caso avvenne la nobildonna volgeva alla quarantina. Del resto la Contessa passava le lunghe ore sul genuflessorio, e quando mi incontrava o sulla porta della cucina o per le scale, mi tirava alcun poco i capelli nella cuticagna, unica gentilezza che mi ricorda aver ricevuto da lei. Un quarto d'ora per giorno lo impiegava nell'assegnar il lavoro alle cameriere, e il restante del suo tempo lo passava in un salotto colla suocera e le figlie, facendo calze e leggendo la vita del santo giornaliero. La vecchia madre del Conte, l'antica dama Badoer, viveva ancora a que' tempi; ma io non la vidi che quattro o cinque volte, perché la era confitta sopra una seggiola a rotelle dalla vecchiaia e a me era inibito entrare in altra camera che non fosse la mia ove dormiva allora colla seconda cameriera o come la chiamavano colla donna dei ragazzi. La era una vecchia di quasi novant'anni piuttosto pingue e d'una fisonomia dinotante il buon senso e la bontà. La sua voce, soave e tranquilla in onta all'età, aveva per me un tale incanto che spesso arrischiava di buscar qualche schiaffo per andarla ad udire postandomi coll'orecchio alla serratura della sua porta. Una volta che la cameriera aperse la porta mentre io era in quella positura, ella s'accorse di me e mi fe' cenno di avvicinarmi. Io credo che il mio cuore balzasse fuori del petto per la consolazione, quando essa mi mise la mano sul capo dimandandomi con severità, ma senza nessuna amarezza, cosa io mi facessi dietro l'uscio. Io le risposi ingenuamente ma tremolando per la commozione che mi stava là, contento di udirla parlare, e che la sua voce mi piaceva molto e mi pareva che non dissimile l'avrei desiderata a mia madre. — Bene, Carlino — mi rispose ella — io ti parlerò sempre con bontà finché meriterai di esser ben trattato pei tuoi buoni portamenti; ma non istà bene a nessuno e meno che meno ai fanciulli origliare dietro le porte; e quando vuoi parlare con me, devi entrar in camera e sedermiti vicino, ché io ti insegnerò, come posso, a pregar Iddio e a diventare un buon figliuolo. Nell'udire queste cose a me poveretto venivan giù le lagrime quattro a quattro per le guancie. Era la prima volta che mi parlavano proprio col cuore; era la prima volta che mi si faceva il dono d'uno sguardo affettuoso e d'una carezza! e un tal dono mi veniva da una vecchia che aveva veduto Luigi XIV! Dico veduto, proprio veduto; perché lo sposo della nobildonna Badoera, quel vecchio Conte così ghiotto dei grammaestri e degli ammiragli, pochi mesi dopo il suo matrimonio era andato in Francia ambasciatore della Serenissima e vi aveva condotto la moglie che per due anni era stata la gemma di quella Corte! Quella stessa donna poi tornata a Fratta avea serbato l'eguali grazie dei modi e del parlare, l'egual rettitudine di coscienza, l'eguale altezza e purità di sentimenti, l'uguale spirito di moderazione e di carità, sicché anche perduto il fiore della bellezza aveva continuato ad innamorare il cuore dei vassalli e dei terrazzani come prima aveva innamorato quello dei cortigiani di Versailles. Tanto è vero che la vera grandezza è ammirabile ed ammirata dovunque, e né diventa né si sente mai piccola per cambiar che faccia di sedile. Io piangeva dunque a cald'occhi stringendo e baciando

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Argomenti: vecchio conte,    vecchio martino,    fazzoletto nero,    sguardo affettuoso,    avvocato lindo

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