Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 146

Testo di pubblico dominio

complesso mi fidava di lui aspettandomi di vedere quandocchesia qualche cosa di grande; e benché egli rimanesse ingannato come noi dalle stesse illusioni, lo reputava tanto superiore per larghezza di vedute, e tenacia e forza di volontà che non avrei saputo figurarmelo illuso e sconfitto per la seconda volta. Allora era giovine; neppure il dolore mi rintuzzava la speranza, e questa si facea strada dovunque in mezzo agli sconforti ai timori alle angosce dell'animo. Così tornato alquanto in me da quell'utile esercizio interiore, desinai d'un pezzo di pane trovato sopra un armadio; e uscii a notte fatta per cercare di Agostino Frumier se era ancora a Venezia e concertarmi con lui sulla nostra partenza. La verità si era che una cura più profonda e vergognosa di parlare in nome proprio metteva innanzi cotale pretesto di dilazione: tanto è vero che avviato a casa Frumier mi sviai senza avvedermene fino al Campo di Santa Maria Zobenigo dove sorgeva il palazzo Navagero. E là giunto me ne pentii, ma non potei fare che non mi fermassi a spiare tutte le finestre, e che non scendessi anche sul traghetto per guardare il palazzo dalla parte del Canal Grande. Le impannate erano chiuse dappertutto e non potei neppure indovinare se vi fosse lume o buio negli appartamenti. Mogio mogio colle orecchie basse mi volsi di malavoglia a casa Frumier, ove mi fu detto che sua Eccellenza Agostino era in campagna. La settimana prima un servo non si sarebbe arrischiato di pronunciare a voce alta quel titolo; ma la nobiltà tornava a far capolino; io non me ne incaricai gran fatto; solo mi dispiacque quel subitaneo girelliamo, e in seguito ebbi poi tempo di avvezzarmi anche a questo. — In campagna! — io sclamai con una buona dose d'incredulità. — Sì, in campagna dalla banda di Treviso — rispose il servo — e lasciò detto che tornerà la settimana ventura. — E il nobiluomo Alfonso? — richiesi io. — L'è a letto da due ore. — E il signor Senatore?... — Dorme, dormono tutti!... — Buona notte! — io conclusi. E colla stessa parola misi in pace tutti i pensieri tutte le paure che mi venivano spunzecchiando pel capo. La parte migliore la più civile ed assennata del patriziato veneziano avrebbe finto di dormire: gli altri!... Dio me ne liberi!... Non volli pensare a distribuir le parti. — Quello che è certo è che la settimana seguente, allo stabilirsi del governo imperiale in Venezia, Francesco Pesaro, l'incrollabile cittadino, l'innamorato degli Svizzeri, l'Attilio Regolo della scaduta Repubblica, riceveva i giuramenti. Lo noto qui, perché almeno i nomi non facciano velame alle cose. Seguitai intanto a passeggiare al chiaro di luna. Pattuglie d'arsenalotti, di guardie municipali e di soldati francesi s'incontravano gomito a gomito nelle calli, si schivavano come appestati e andavano pei fatti loro. Il fatto dei Francesi era d'imbarcare quanto più potevano delle dovizie veneziane sul naviglio che dovea veleggiare verso Tolone. I capi per consolarci dicevano: — State quieti! È una mossa strategica! Torneremo presto! — Intanto per tutto quello che non poteva succedere ci conciavano di sorta che a pochi doveva rimanere il desiderio del loro ritorno. Il popolo tradito, ingiuriato, spogliato a man salva, s'intanava nelle case a piangere, nei templi a pregare, e dove prima pregavano Dio di tener lontano il diavolo, lo supplicavano allora di mandar al diavolo i Francesi. Gli animi volgari si piegano arrendevoli alla tolleranza del minor male; né bisogna aspettarsi di più da chi sente prima di pensare. Dei beni perduti si sperava almeno di riacquistarne alcuno; la libertà è preziosa, ma pel popolo bracciante anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l'abbondanza non sono cose da buttarsi via. È un difetto grave negli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ruinoso nei politici appoggiare sopra questa manchevole pretensione le loro trame, i loro ordinamenti! Dai Frumier passai a cercare degli Apostulos, perché la solitudine mi spingeva sulla strada delle deliberazioni, ed io non aveva questa gran voglia di deliberare. Là io trovai abbastanza da perdere un paio d'ore; scommetto di più che non mi sarei figurato giammai di perderle con tanto piacere. Il vecchio banchiere greco stava ancora nello studio; d'intorno ad una bragiera alla spagnuola sedeva la sua vecchia moglie, una vera figura matronale con un bel paio d'occhiali sul naso e il Leggendario dei santi aperto sui ginocchi; una vaga fanciulla vestita di bruni colori, tutta leggiadria, tutta greca dalle radici dei capelli fino ai petulanti coturni mainotti, e questa ricamava un paramento da altare; finalmente il simpatico Spiro che si guardava le unghie. Questi due ultimi balzarono in piedi alla mia venuta, e la vecchia mi guardò dignitosamente di sopra agli occhiali. Indi il giovane mi presentò secondo il convenevole alla signora madre e a sua sorella Aglaura, ed io entrai quarto nel colloquio. Una conversazione di Greci non ci starebbe senza quattro dita di pipa; a me ne offersero una che andava fuori della stanza, e siccome dopo il mio accasamento a Venezia ci avea studiato sopra anche a quest'arte importantissima del vivere moderno, così me la cavai senza sfigurare. Aveva però tutt'altra voglia che di fumo, e la distrazione mi mandò a traverso dei polmoni parecchie boccate. — Che vi pare di Venezia? cosa avete fatto di bello quest'oggi? — mi domandò Spiro per intavolar il discorso in qualche maniera. — Venezia mi pare un sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere — gli risposi io. E per dirgli quello che avea fatto, gli narrai d'un mio amico che era morto, e degli ultimi dolorosi uffici ch'io avea dovuto prestargli. — Ne ho udito parlare in Piazza — soggiunse Spiro — e lo dicevano avvelenato per disperazione patriottica. — Certo aveva animo da disperarsi così altamente — ripresi io senza assentire direttamente. — Ma credete voi che siano atti di vero coraggio questi? — mi richiese egli. — Non so — soggiunsi io. — Quelli che non si ammazzano dicono che non è coraggio; ma torna loro conto il dirlo; e d'altronde non hanno mai provato. Io per me credo che tanto a vivere fortemente, come a morire per propria volontà faccia d'uopo una bella armatura di coraggio. — Sarà anche coraggio — riprese Spiro — ma è un coraggio cieco e male avveduto. Per me il vero coraggio è quello che ragiona sull'utilità dei proprii sacrifizi. Per esempio non chiamo coraggio il cader d'una pietra dall'alto della montagna che poi si spacca in frantumi nel fondo della valle. È ubbidienza alle leggi fisiche, è necessità. — Sicché voi credete che chi si toglie di vita pieghi servilmente sotto la necessità fisica che lo abbatte? — Non so s'io creda questo, ma ritengo peraltro che non sia veramente forte e coraggioso quell'uomo che si uccide indarno oggi, mentre potrebbe sacrificarsi utilmente domani. Quando tutto il genere umano sia libero e felice, allora sarà incontrastabile eroismo il togliersi di vita. Potreste citarmi l'unico caso di Sardanapalo, ed anco vi risponderei che Camillo fu più forte più animoso di Sardanapalo. La vecchia aveva chiuso il Leggendario, e la bruna Aglaura ascoltava le parole di suo fratello guardandolo di sbieco e colla mano posata sul ricamo. Io adocchiava di sottecchi la giovinetta perché mi stuzzicava la curiosità quest'attitudine risoluta e sdegnosa; ma la mamma s'intromise allora a stornare il dialogo da quel soggetto di tragedia, e l'Aglaura tornò tranquillamente a passare e ripassare in un bel panno pavonazzo la sua agucchiata di seta. Parlammo allora delle novelle che andavano per le bocche di tutti, del prossimo sgombro dei Francesi, dell'ingresso in Venezia degli Imperiali, della pace gloriosamente sperata e dispoticamente imposta; insomma si parlò di tutto, e le due donne si mescolavano al discorso senza vanità e senza sciocchezze;

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Argomenti: vecchio banchiere,    vero coraggio,    cotale pretesto,    eccellenza agostino,    patriziato veneziano

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