Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 158

Testo di pubblico dominio

il povero esule scrivendo quelle parole sentiva già i primi sintomi di quella malattia che lo teneva allora inchiodato sul letto pestilente d'uno spedale. L'immaginazione dell'Aglaura era così vivace che le pareva quasi di vederlo abbandonato all'incuria piucché alle cure d'un infermiere mercenario, e disperato di dover morire senza un suo bacio almeno sulle labbra. In questi discorsi giunsimo a un piccolo villaggio e là ci accomodammo d'un birroccio che ci trascinò fino a Cittadella. Narrarvi come l'Aglaura pigliasse filosoficamente gli incommodi e le fatiche di quel viaggiare alla soldatesca, sarebbe cosa da ridere. La notte si dormiva in qualche bettolaccia di campagna, dove c'era le più volte una camera sola con un letto solo. Gli è vero che questo era pel solito tanto vasto da albergare un reggimento, ma la pudicizia, capite bene, non permetteva certi rischi. Appena entrati nella stanza si smorzava il lume; ella si spogliava e si metteva a giacere sul letto; io mi rannicchiava alla meglio sopra una tavola o in qualche seggiola di paglia. Guai se fossi stato avvezzo per tutta la mia vita alle mollezze dei materassi e dei piumini veneziani! In un paio di notti mi avrei logorato le ossa. Ma queste si ricordavano ancora per fortuna del covacciolo di Fratta e dei bernoccoli implacabili di quei pagliericci; perciò reggevano valorosamente al cimento e potevano sfidare al giorno seguente i trabalzi balzani d'una nuova carrettaccia. Così stentando, balzellando e convien dirlo anche ridendo, traversammo il Vicentino, il Veronese e giunsimo sul quarto giorno a Bardolino in riva alle acque dell'azzurro Benaco. In onta alle mie sventure, ai miei timori e alle distrazioni impostemi dalla compagna, mi ricordai di Virgilio, e salutai il gran lago che con fremito marino gonfia talvolta i suoi flutti e li innalza verso il cielo. Da lontano si protendeva nelle acque la vaga Sirmione, la pupilla del lago, la regina delle isole e delle penisole, come la chiama Catullo, il dolce amante di Lesbia. Vedeva il colore melanconico de' suoi oliveti, m'immaginava sotto le loro ombre vagante con soavi versi sulle labbra il poeta delle grazie latine. Rimuginava beatamente al lume della luna le mie memorie classiche; ringraziando in cuor mio il vecchio piovano di Teglio che m'avea dischiuso la sorgente di piaceri così puri, di conforti così potenti nella loro semplicità. Orfano si potea dire di genitori e di patria, balestrato non sapeva dove da un destino misterioso, tutore per forza d'una fanciulla che non m'era stretta da alcun legame né di parentela né d'amore, rivedeva tuttavia un barlume di felicità nelle poetiche immaginazioni di uomini vissuti diciotto secoli prima. Oh benedetta la poesia! eco armonioso e non fugace di quanto l'umanità sente di più grande ed immagina di più bello!... alba vergine e risplendente dell'umana ragione!... tramonto vaporoso e infocato della divinità nella mente inspirata del genio! Ella precede sui sentieri eterni ed invita a sé una per una le generazioni della terra: ed ogni passo che avanziamo per quella strada sublime ci dischiude un più largo orizzonte di virtù di felicità di bellezza!... S'incurvino pure gli anatomici a esaminare a tagliuzzare il cadavere; il sentimento il pensiero sfuggono al loro coltello e avvolti nel mistico ed eterno rogo dell'intelligenza slanciano verso il cielo le loro lingue di fiamma. Andavamo via per la costa della collina, mentre l'oste ci imbandiva la cena d'una piccola trota e di poche sardelle. Io pensava a Virgilio a Catullo alla poesia; e Venezia e la Pisana e Leopardo e Lucilio e Giulio Del Ponte ed Amilcare e tutti morti vivi moribondi gli affetti del cuore tremolavano soavemente nei miei vaghi pensieri. L'Aglaura mi veniva appresso ravvolta nel suo cappotto e grave anch'essa la fronte di melanconiche fantasie. La luna le batteva per mezzo al volto e disegnandone il dilicato profilo ne vezzeggiava a tre tanti la greca bellezza. Mi pareva la musa della tragedia, quando prima si rivelò pensosa e severa all'estro di Eschilo. Tutto ad un tratto dopo un'erta faticosa della via giunsimo dov'essa radeva il sommo d'una rupe che impendeva precipitosa sul lago. La frana cadeva giù nera e cavernosa, sbiancata mestamente dalla luna in qualche nodo più rilevato; di sotto l'acqua nereggiava profonda e silenziosa; il cielo vi si specchiava entro senza illuminarla, come succede sempre quando la luce non viene di traverso ma a piombo. Io mi fermai a contemplare quel tetro e solenne spettacolo che meriterebbe una descrizione finita da una penna più maestra o temeraria della mia. L'Aglaura si protese sulla repente caduta della roccia, e parve assorta per un istante in più tetre meditazioni. Ohimè! io pensava intanto ai tranquilli orizzonti, alle verdi praterie, alle tremolanti marine di Fratta; rivedeva col pensiero il bastione di Attila e il suo vasto e maraviglioso panorama che primo m'avea incurvato la fronte dinanzi la deità ordinatrice dell'universo. Quanti fiori di mille disegni, di mille colori racchiude la natura nel suo grembo, per ispanderli poi sulla faccia multiforme dei mondi!... Mi riscossi da cotali memorie a un lungo e profondo sospiro della mia compagna: allora la vidi avventarsi in avanti e rovinar capovolta nell'abisso che le vaneggiava a' piedi. Mi scoppiò dalla gola un grido così straziante che impaurì quasi me stesso; lo spavento mi drizzava i capelli sul capo e mi sentiva attirare anch'io dal vorticoso delirio del vuoto. Ma raccapricciava al pensiero di volgere un'occhiata a quella profondità e fermarla forse nelle spoglie inanimate e sanguinose della misera Aglaura. In quella mi parve udire sotto di me e non molto lontano un fioco lamento. Mi chinai sul ciglio della rupe, intesi l'orecchio e raccolsi un gemito più distinto; era dessa, non v'avea dubbio: viveva ancora. Aguzzai gli occhi a tutto potere e scorsi finalmente fra un macchione di cespugli una cosa nera che somigliava un corpo e pareva esservi rimasta appesa. Impaziente di recarle soccorso e di sottrarla al pericolo imminente d'un ramo che si spezzasse o d'una radice che cedesse, mi calai giù risoluto per la parete quasi verticale della roccia. Strisciava lungh'essa rapidamente col viso coi ginocchi coi gomiti, ma lo strisciamento stesso e qualche cespo d'erba cui mi aggrappava nel passare rompevano il soverchio precipizio della discesa. Non so per qual miracolo arrivassi sano e salvo, cioè almeno colle gambe intiere e colle vertebre bene inanellate, alla macchia di cornioli che l'aveva trattenuta. Allora non avea tempo da maravigliarmi; la ritrassi dalla spinaia in cui era impigliata coi gheroni del cappotto e la addossai ancor semiviva al dirupo. Senz'acqua senza nessun aiuto in quel ginepraio che aveva figura d'un gran nido di aquilotti, io non poteva altro che aspettare ch'ella rinvenisse o guardarla morire. Aveva udito dire che anche il soffio giovasse a ridonare i sensi agli smarriti per qualche commozione violenta, e mi diedi a soffiare negli occhi e sulle tempie spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. Ella dischiuse alfine le ciglia; io respirai come se mi si togliesse di sopra al petto un enorme macigno. — Ahimè! sono ancor viva! — mormorò ella. — Dunque è proprio segno che Dio lo vuole!... — Aglaura, Aglaura! — le diss'io all'orecchio con voce supplichevole ed affettuosa — ma dunque non avete nessuna fede in me?... dunque la mia protezione, la mia compagnia hanno finito di rendervi fastidiosa la vita!.... — Voi, voi? — soggiunse languidamente — voi siete il più fido e diletto amico ch'io m'abbia: per voi io mi condannerei a vivere, se fosse di bisogno, il doppio del tempo destinatomi dalla sorte. Ma che valore ha mai la mia vita pel bene degli altri?... — Ne ha uno di grandissimo, Aglaura! Prima di tutto pei vostri genitori, per vostro fratello che vi ama, vi adora, e voi sola ne sapete il quanto! indi perché vi è un cuore al mondo che ha diritto d'amore e

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Argomenti: profondo sospiro,    quarto giorno,    voce supplichevole,    largo orizzonte,    piccolo villaggio

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