Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 162

Testo di pubblico dominio

voltarsi, e se non fossero stati quei pochi frutti della dote della Pisana le sarebbe mancato addirittura il pane. Tuttavia la giocava sempre, e le scarse mesate di Rinaldo passavano il più delle volte nelle tasche senza fondo di qualche baro matricolato. Le notizie di Fratta la Pisana diceva averle avute dai suoi zii di Cisterna che coi loro figliuoli s'erano accasati a Venezia sperando di avviarli utilmente in qualche carriera pel favore che la loro famiglia godeva presso i Tedeschi. Sì da un partito che dall'altro era una gran ressa di mani intorno ai denari del povero pubblico. Chi volete che restasse in mezzo o lontano da ambidue, dove non c'era lusinga di beccar nulla al mondo? Confesso la verità che di cotali miracoli ne vidi pochissimi in mia vita; e nessuno quasi in uomini d'età matura. Il disprezzo degli onori e delle ricchezze si appartiene alla gioventù. Sappia ella tenersi cara questa sua dote santissima, la quale sola rende possibili i grandi intendimenti e facili le magnanime imprese. L'altra lettera che mi capitava era del vecchio Apostulos. Avvisavami della fuga della figlia e delle misure prese per rintracciarla in ogni luogo fuori che a Milano. In questa città un tale incarico era affidato a me. Ne chiedessi conto, la cercassi; e trovatala o la rimandassi a Venezia o la trattenessi meco secondo il miglior grado di lei. Certo egli non vorrebbe usare i diritti della paternità sopra una figlia ribelle e fuggitiva. Facesse ella di suo capo; egli non la malediceva, ché i pazzi non lo meritano, ma la dimenticava. Peraltro in un poscritto aggiungeva che aveva disposto per le indagini più minute nelle altre città di terraferma, e che di colà i suoi corrispondenti avevano ordine di riaccompagnargli tosto la colpevole. Solo transigeva in favor mio: e se vedeva che l'aberrazione della ragazza potesse guarirsi meglio a Milano che a Venezia, adoperassi secondo le circostanze. — Queste ultime parole erano sottosegnate, ma io non ne capii affatto il recondito significato. Pensai di chiederne lo schiarimento all'Aglaura, se con esse forse non si alludesse ad un matrimonio col signor Emilio; ma non intendeva allora la ragione di parlarne con tanto mistero. Era certo un curioso destino il mio di esser creduto da ciascuna parte il confidente dell'altra; e tutti mi parlavano a cenni, a mezze parole, dalle quali non ci capiva più che sull'arabo. Del resto, di mio padre nessuna nuova ancora; ma non se ne speravano fino al Natale, e le notizie generali di Levante erano buone. Con tutto questo viluppo di pensieri, di novità, di imbrogli, di misteri pel capo, mi fermai ad un caffè a chiedere ove fosse la caserma della Legione Cisalpina. Mi risposero a Santa Vicenzina, due passi dalla Piazza d'Armi. Io ne sapeva con ciò meno di prima; ma a forza di domandare, di voltare, di ridomandare e di camminare ancora, giunsi ove desiderava. La disciplina non era molto esemplare in quella caserma; si entrava e si usciva come in un porto franco. La confusione il rumore e il disordine non potevano esser maggiori. I capi attendevano a pavoneggiarsi nelle loro nuove assise e a farsene argomento di conquista sul cuor delle belle prima di recarle in campo, spavento dei nemici. I subalterni e i minimi litigavano sempre fra loro, perché ai primi sembrava dover essere primi per ragione di grado; e i secondi del pari per la prammatica repubblicana che tendeva a rialzar gli ultimi. S'avrà un bel che fare ma questo viluppo dell'uguaglianza e della dipendenza stenteremo ad accomodarlo; massime tra noi dove non v'è capo d'oca che non si appropri il famoso Tu regere imperio populos di Virgilio: “ed un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene!” ebbe a dire anche Dante. Sarà forse un pregio dell'indole italiana tralignato in difetto per le condizioni mutate dei tempi. Com'è certo che la superbia si affà molto al leone nel deserto ma gli sconviene affatto in gabbia. Peraltro, direte voi, quello che fu potrebbe essere, e col battere e ribattere, coll'educazione, coll'abitudine molto si ottiene. Io pure vi dirò che ci spero non poco, massime se non ci aduleremo a vicenda; e del resto mi appiglio più volentieri alla boria permalosa dell'Italiano, che alla genuflessa obbedienza dello Slavo ubbriaco. Qui ci sarebbe posto ad una gran dissertazione sopra l'opinione di coloro che si aspettano dagli Slavi l'ultima verniciatura di civiltà; come fanno merito alla Germania del maggior lavoro; e a noi, poveretti bastarducci di Roma, non lasciano altro vanto che quello d'un primo disegno, un po' ideale, un po' falso se volete, ma pure un po' nostro a quanto pare. Contro cotali detrattori delle razze latine sarebbe tempo perduto lo scrivere dei volumi; basterà additare ed aprire quelli già stampati. L'Italia il passato, la Francia ha in mano, checché ne dicano, il presente del mondo. E il futuro? lasciamolo agli Slavi, ai Calmucchi anche, se se ne accontentano. Io per me credo che quel futuro sarà sempre futuro. Tuttociò peraltro non iscusava per nulla della sua trasandatezza, della sua insubordinazione la Legione Cisalpina. Lasciamo da un canto la questione del valore; ma vi assicuro che in quanto a disciplina e a bell'assetto le famose Cernide di Ravignano ci avrebbero fatto un'onesta figura. Cosa ne avrebbe detto il teorico teoricissimo capitano Sandracca il quale affermava che in un reggimento ben ordinato un soldato dovea somigliare all'altro più che fratello a fratello, tanta aveva ad essere l'influenza assimilatrice della disciplina?... Io scommetto invece che, a chi avesse trovato fra i legionari lombardi due che portassero l'ugual taglio di barba, si avrebbe potuto regalare il costo del Duomo di Milano. La storia della moda ci aveva in questo particolare i suoi esemplari da Adamo fino ai Babilonesi agli Ostrogoti e ai granatieri di Federico II. Chiesi conto del dottor Lucilio Vianello, di Amilcare Dossi, e di Giulio Del Ponte ad un soldatuccio sudicio ed ingrognato che per la mercede d'un mezzo boccale lustrava rabbiosamente le scarpe d'un suo collega. — Sono della prima schiera: voltate a sinistra — mi rispose quell'ilota dell'eguaglianza. Io voltai a sinistra e ripetei la mia inchiesta ad un altro milite ancor più sporco del primo che strofinava con olio e stoppacci la canna d'un fucile. — Canchero, che Dio li maledica, li conosco tutti e tre! — rispose costui. — Vianello è appunto il medico della compagnia, quello che ci scanna tutti per ordine dei Francesi che sono stanchi di noi... Sapete, cittadino, che hanno chiuso la Sala dell'Istruzione pubblica?... — Non ne so nulla — diss'io — ma dove potrei... — Aspettate; come vi diceva, Vianello è il medico, Dossi è l'alfiere della mia compagnia, e Del Ponte è il caporale, una figura di morte briaca che non può regger in piedi, e mi butta sulle spalle tutti gli incommodi del servizio. Guardate, questo è il suo schioppo che mi tocca sfregolare!... Colla bella festa di stamattina!... Farci star dieci ore ritti ritti come pali a odorar il vento che sapeva d'inverno più del bisogno!... Canchero, ci siamo inscritti per far la guerra, per distruggere la stirpe dei re e degli aristocratici, noi! non per far la corte al Direttorio e portargli la candela in processione!... Per cotal mestiere mandino a chiamare gli staffieri dell'Arciduca Governatore. È una vera ignominia... Non ho bevuto in tutt'oggi che un terzino di Canneto... E sì che per niente non si dovrebbe essere repubblicani!... Cittadino, mi onorereste d'un piccolo prestito per comperarne una pinta?... Giacomo Dalla Porta, capofila nella prima schiera della Legione Cisalpina ai vostri comandi. Io gli sporsi, s'intende a titolo di prestito, una lira di Milano, col patto che mi conducesse senz'altre chiacchiere da alcuno di quei tre che gli aveva nominato. Buttò via lo schioppo, l'olio, gli stoppacci; fece quattro salti proprio alla meneghina con quella liretta fra il pollice e l'indice, e squadrandomi l'altra mano ben

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Argomenti: due passi,    dieci ore,    figlia ribelle,    curioso destino,    star dieci

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