Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 113

Testo di pubblico dominio

Altoviti, gentiluomo di Torcello, cancelliere di Fratta, e da poco in qua avogadore degli uomini di Portogruaro. — Avogadore, avogadore! — borbottò il Vice–capitano. — È lei che lo dice; ma spero che non vorrà torre sul serio lo scherzo d'una folla ubbriaca: sarebbe troppo rischio per lei. Quella masnada di sgherri assentì del capo alle parole del principale; io sentii una scalmana venirmi su pel capo, e poco mancò che non dessi fuori in qualche enormezza per dar loro a divedere quanto poco mi calesse di tali minacce. Un alto sentimento della mia dignità mi trattenne dallo scoppiare, e risposi al Vice–capitano che certamente io non era degno del grande onore impartitomi, ma che non intendeva scadere di più mostrandomi più dappoco che non fossi infatti. Or dunque vedesse lui quali concessioni fosse disposto a fare perché il popolo mio cliente s'avvantaggiasse della libertà nuovamente acquistata. — Che concessioni, che libertà? io non ne so nulla! — rispose il Vice–capitano. — Da Venezia non son venuti ordini; e la libertà è tanto antica nella Serenissima Repubblica da non esservi nessun bisogno che il popolo di Portogruaro l'inventi oggi stesso. — Piano, piano, con questa libertà della Serenissima! — replicai io già addestrato a simili dispute pel mio noviziato padovano. — Se lei per libertà intende il libero arbitrio dei tre Inquisitori di Stato son pronto a darle ragione; essi possono fare alto e basso come loro aggrada. Ma in quanto agli altri sudditi dell'Eccellentissima Signoria le domando umilmente in qual lunario ha ella scoperto che si possano chiamar liberi? — L'Inquisizione di Stato è una magistratura provata ottima da secoli — soggiunse il Vice–capitano con una vocina malsicura nella quale l'antica venerazione si contemperava colla peritanza attuale. — Fu trovata ottima pei secoli andati — soggiunsi io. — Quanto al presente siamo di diverso parere. Il popolo la trova pessima, e giovandosi del suo diritto di sovranità la libera per sempre dall'incomodo di servirla. — Signor... signor Carlino, mi pare — riprese il Vice–capitano — le faccio osservare che questa sovranità nessuno l'ha ancora data al popolo di Portogruaro, e che questo popolo nulla ha fatto per conquistarla. Io sono ancora l'officiale della Serenissima Signoria, e non posso certo permettere... — Eh via! — lo interruppi io — cosa non hanno permesso gli officiali della Serenissima a Verona a Brescia a Padova e dappertutto dove hanno voluto entrare i Francesi! — Fuoco di paglia, signor mio! — sclamò imprudentemente il Vice–capitano. — Si finge alle volte di concedere per riprender meglio poi. So da buona fonte che il nobile Ottolin tien pronti trentamila armati nelle valli bergamasche, e mi sapranno dire se il ritorno dei signori Francesi somiglierà all'andata. — Insomma, signor mio — ripigliai — qui non si tratta di sapere cosa avverrà domani: si tratta di esaudire o no le inchieste d'un popolo libero. Si tratta di rendergli quello che gli fu estorto con quel tirannico dazio delle macine, più di aprire a suo profitto quei granai dell'erario che ormai sono diventati inutili perché i Schiavoni possono tornar a casa quando loro aggrada. Un mormorio di scontento corse per le bocche di tutti, ma il Capitano che era dilicato d'orecchio e udiva ingrossar di fuori un nuovo tumulto fu più moderato degli altri. — Io sono il Vice–capitano delle milizie e delle carceri — mi rispose egli. — Questi (e m'additava un omaccio grosso e bernoccoluto) questi è il Cassiere dei dazi; quest'altro (un figuro lungo e magro come la fame) è il Conservatore dei pubblici granai. Investiti dalla Signoria delle nostre cariche, noi non possiamo certamente riconoscere in lei un legittimo magistrato né obbedire al piacer suo senza un rescritto della Signoria stessa. — Corpo e sangue! — io gridai. — Son dunque avogadore per nulla? Quella gente si guardò in viso allibita per tanta baldanza; laonde io più impegnato che mai a sostener la mia parte uscii affatto dai gangheri. — Io, signori, ho promesso di tutelare gli interessi del popolo e li tutelerò. Più devo tornare a Fratta prima di sera, e prima di sera voglio dar ordine a tutte queste faccende. Mi hanno capito, signori? Altrimenti io ricorro al popolo e lascio fare a lui. — Ho capito — rispose con maggior tenacità ch'io non m'aspettassi il Vice–capitano. — Ma senza un ordine della Signoria io non riconoscerò altri superiori che l'Eccellentissimo Luogotenente. E quanto al popolo esso non vorrà far il matto finché noi terremo lei per ostaggio in nostra compagnia. — Come, io tenuto per ostaggio?... Un avogadore!... — Lei non è avogadore per nulla! Sono io il Vice–capitano. — Grazie! vedremo anche questa. — La vedremo di sicuro: ma non la consiglio ad aver fretta. Già ne sappiamo alquanto sul conto suo e come ella tratta con poco rispetto i fidatissimi dell'Inquisizione. — Ah ne sanno alquante!... Me l'immagino! Il loro fidatissimo appena tornato a Fratta lo farò impiccare!... Sappiamo anche questa! — Olà! d'ordine dell'Eccellentissima Signoria questa persona è arrestata come rea di lesa maestà! A questa tirata affatto tragica del Vice–capitano la sua masnada mi si schierò intorno, come per impedirmi di fuggire; ma lo domando adesso per allora, qual uopo si aveva di questa precauzione se tutte le porte erano serrate? Se fossi stato Pompeo mi avrei messo il lembo della toga sul capo, invece incrociai le braccia sul petto e diedi a quella ciurma vigliacca il sublime spettacolo d'un avogadore senza popolo e senza paura. Quel quadro plastico non durava da un minuto, che uno scalpito di cavalli, un accorrere e un urlare di popolo nella sopposta contrada attrasse l'attenzione dei miei carcerieri. Tutti si precipitavano alle finestre quando s'intesero più distinte le grida di quel nuovo tumulto. — I Francesi! I Francesi! Viva la libertà!... Largo ai Francesi! Rimasero come tante statue del convito di Medusa, chi qua chi là per la stanza. Io solo fui d'un salto alla finestra, e vidi giunto alla porta del Capitaniato un drappello di cavalleggieri colle loro lance, e intorno ad essi un tramestio, una confusione di pazzi, di curiosi, di fanatici che parevano disposti a fracassarsi la testa l'uno contro l'altro per le diverse passioni che li agitavano. — Vivano i Francesi!... Largo ai signori Francesi! Non c'era dubbio; quei cavalleggieri erano francesi, e si misero a picchiare colle loro lance nella porta del Capitaniato, urlando e bestemmiando con tutte le peste e i sacrebleu del loro vocabolario. Io gridai dall'alto che si sarebbe aperto sul momento; e le mie parole furono accolte da un raddoppio di grida e d'entusiasmo nella folla. — Bravo il signor Avogadore!... Avanti il signor Avogadore! Commosso da tanta bontà io m'inchinai e corsi poi dentro per fare che si aprisse. Ma dentro nessuno mi udiva, tutti fuggivano all'impazzata qua e là per le stanze; alcuni si rimpiattavano negli armadi vuoti dell'archivio; altri cercavano le chiavi delle carceri per mescolarsi ai prigionieri; gli Schiavoni di scolta se l'erano data a gambe per la porticciuola del vicolo, e dovetti scendere io stesso per togliere le sbarre alla porta. Si salvi chi può; appena socchiuse le imposte si precipitò nell'atrio col cavallo e colla lancia un dannato sergente che per poco non m'infilzò da banda a banda; e dietro a lui tutti quegli altri spiritati benché davanti alle soglie ci fosse una gradinata di sette scalini: e poi nell'atrio volteggiavano di gran trotto alla rinfusa quasi per infilar la scala e salir Dio sa dove. Il Vice–capitano e i suoi satelliti udendo sotto i piedi quel baccano che facea tremar le muraglie si raccomandavano alla beata Vergine del Terremoto. Io poi cercava farmi intendere dal sergente e persuaderlo a scender da cavallo se intendeva salir le scale come pareva sua idea. Il sergente con grande mia meraviglia mi

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Argomenti: grande onore,    libero arbitrio,    alto sentimento,    troppo rischio,    sovranità nessuno

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