Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 31

Testo di pubblico dominio

colla solita voce poco aggraziata: — Mastro Germano ce l'avete ancora a Fratta? — Sissignore! — risposi dopo un guizzo di sorpresa per quella vociata repentina. — Egli regola ogni giorno l'orologio della torre; apre e chiude il portone; e spazza anche il cortile dinanzi la cancelleria. Egli è molto dabbene con me e molte volte mi conduce a veder le ruote dell'orologio, insieme alla Pisana che è proprio la figliuola della signora Contessa. — Monsignor di Sant'Andrea ci viene spesso a trovarvi? — mi domandò ancora con una risata. — Gli è il confessore della signora Contessa; — dissi io — ma gli è un pezzo che non lo vedo, perché ora, dopo che ho incominciato a veder il mondo, sto in cucina meno che posso. — Bravo! bravo! la cucina è pei canonici! — continuò egli. — Adesso puoi scendere, scoiattolo; ché siamo a Fratta. Tu sei il più buon cavalcatore del territorio, me ne congratulo con te! — S'immagini! — soggiunsi saltando a terra — ci andava sempre a cavallo io dietro a Marchetto. — Ah! sei tu quel pappagallo che gli stava dietro anni sono — riprese colui ridacchiando. — Prendi, prendi; — aggiunse dandomi una buona impalmata sulla nuca — dagliela per mio conto al cavallante questa focaccia; ma giacché sei suo amico non dirgli che mi hai veduto da queste bande: non dirglielo, né a lui, né a nessuno, sai! In ciò dire l'uomo della gran barba spinse il suo cavallo alla carriera per una straducola che mena a Ramuscello, ed io restai là a udire colla bocca aperta lo scalpitar del galoppo. E quando il romore si fu dileguato girai intorno alle fosse, e sul ponte del castello vidi Germano che guardava intorno come se aspettasse qualcuno. — Ah birbone! ah scellerato! andar a zonzo per queste ore! tornar a casa così tardi? Chi te ne ha insegnate di tanto belle?... Ora te la darò io!!... Cotal fu l'intemerata con cui Germano mi accolse; ma la parte più calorosa dell'orazione non posso tradurla in parole. Il buon Germano mi menò avanti a sculacciate dalla porta del castello fino a quella di cucina. Là mi saltò addosso Martino. — Furfantello! scapestrato che sei! non la farai la seconda volta, te lo giuro io! arrischiarti di notte per questo buio fuori casa! Anche qui la parlata fu il meno; il più si erano le scoppate che l'accompagnavano. Se tanto mi toccava dagli amici, figuratevi poi cosa dovessi aspettarmi dagli altri!... Il Capitano che giocava all'oca con Marchetto s'accontentò di menarmi un buon pugno nella schiena dicendo che la mia era tutta infingardaggine, e che dovevano consegnarmi a lui per averne un buon risultato de' fatti miei. Marchetto mi tirò le orecchie con amicizia, la signora Veronica che si scaldava al fuoco tornò a ribadirmi le sculacciate di Germano, e la vecchiaccia della cuoca mi menò un piede nel sedere con tanta grazia che andai a finir col naso sul menarrosto che girava. — Giusto proprio! sei capitato a tempo! — si pensò di dire quella strega — ho dovuto metter in opera il menarrosto, ma giacché ci sei tu non fa più di mestieri. In tali parole ella avea già cavato la corda dalla carrucola e dato a me in mano lo spiedo dopo averlo preso fuori dalla morsa del menarrosto. Io cominciai a voltare e a rivoltare non senza essere assalito e bersagliato dalle fantesche e dalle cameriere mano a mano che capitavano in cucina: e voltando e rivoltando pensava al Piovano, pensava a Fulgenzio, pensava a Gregorio, a Monsignore, al Confiteor, al signor Conte, alla signora Contessa ed alla mia cuticagna! Quella sera se mi avessero sforacchiato banda per banda collo spiedo non avrebbero fatto altro che diminuirmi il martirio della paura. Certo io avrei preferito arrostita la mia cuticagna, piuttostoché abbandonarla per tre soli minuti alle mani della Contessa; e in quanto alla conciatura, trovava nella mia idea assai più fortunato san Lorenzo che san Bartolomeo. Finché tutti attendevano a malmenarmi, nessuno avea potuto domandare cosa m'avessi io fatto in quella così lunga assenza; ma quando fui inchiodato allo spiedo cominciarono ad assaltarmi d'ogni banda di richieste e d'interrogazioni, sicché dopo essere stato duro sotto le battiture, io presi in quel frangente il partito di piangere. — Ma cos'hai ora, che ti sciogli in lagrime? — mi disse Martino — oh non val meglio rispondere a quello che ti si domanda? — Son stato giù nel prato dei mulini; son stato là lungo l'acqua a pigliar grilli, son stato!... Ih, ih, ih!... È venuto scuro!... e poi ho fatto tardi. — E dove sono questi grilli? — mi chiese il Capitano che se ne immischiava un poco nelle inquisizioni criminali della cancelleria, e ci aveva rubato il mestiero. — Ecco! — soggiunsi io con voce ancor più piagnolosa. — Ecco che io non so!... ecco che i grilli mi saranno fuggiti di tasca!... Non so nulla! io!... Sono stato sull'acqua a pigliar grilli, io!... Ih, ih, ih!... — Avanti con quello spiedo, impostore — mi gridò la cuoca — o ti concio io per le feste. — Non ispaventatelo troppo, Orsola — le raccomandò Martino che dal volto di quella strega aveva indovinato la minaccia delle parole. — Corpo di Pancrazio! — sclamò il Capitano battendo la mano sulla tavola in modo che ne saltarono alte tutte le posate disposte per la cena della servitù. — Tre volte di seguito il nove dovean portare quei maledetti dadi!... Non mi è mai successo un caso simile!... Che partita rovinata!... Basta, tenete a mente, Marchetto!... Tre bezzi di domenica, e due e mezzo di stasera... — La ne ha anche sette della settimana passata! — soggiunse prudentemente il cavallante. — Ah sì sì! sette e cinque, dodici e mezzo — rispose il Capitano scomponendosi il ciuffo. — Giusto manca un mezzo bezzo a fare i sei soldi. Te li pagherò domani. — Si figuri! s'accomodi! — disse sospirando Marchetto. — Quanto a te — continuò il Capitano venendomi vicino per divertire il discorso — quanto a te, bragia coperta d'un girapolli, vorrei sì averti io fra le grinfe che ti farei mettere giudizio! N'è vero, Veronica, che son famoso io per far metter giudizio alla gente? — Va là! volevate dire per farlo perdere! — rispose sua moglie, uscendo dal focolare ed avviandosi al tinello. — Vado ora a dire alla signora Contessa che non stia in angustie, e che Carlino è tornato. Io non aveva uno specchio dinanzi; contuttociò potrei giurare che a quell'annunzio mi si drizzarono i capelli sul capo, come tanti parafulmini. Mi fu allora di mestieri una nuova esortazione della cuoca per tirar innanzi collo spiedo, e poi stetti là più stupidito che rassegnato ad aspettare gli avvenimenti. Infatti questi non mi fecero aspettare a lungo. Mentre la Contessa violava da una banda la sua prammatica giornaliera, e compariva per la terza volta in cucina colla signora Veronica a latere, dall'altra veniva dentro Fulgenzio colla sua grossa figura da santone seppellita più del solito nel collare della giacchetta. Mai la similitudine di Cristo fra i due ladroni non si è appropriata così bene come a me in quel caso; ma sul momento non avea tempo di burlare, poiché sapeva benissimo che nessuno di quei ladri si sarebbe pentito. La Contessa si fece innanzi strascicando oltre l'usanza la coda della veste, e mi si piantò proprio sul viso; che la vampa del focolare le rendeva gli occhi come due bragie, e lucente al pari d'un carbonchio la goccioletta che spesso aggiungeva vezzo al suo naso uncinato. — Così — mi disse stendendo verso di me una mano che mi fece raggruzzolar tutto per i brividi che mi corsero giù per la schiena — così, brutto ranocchio, tu rimeriti la bontà di chi ti ha raccolto, allevato, nutrito, ed educato anche a leggere, a scrivere, e a servir messa?.... Me ne consolo con te. Io ti predico fin'ora che la tua mala condotta ti trarrà in perdizione, che farai la mala vita come l'ha fatta tuo padre, e che finirai col farti appiccare, come è vero che ne dimostri fin d'ora tutte le buone

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Argomenti: mastro germano,    mezzo bezzo

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