Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 87

Testo di pubblico dominio

finito per entrarle in grazia col farle addirittura da mezzana; ed era dessa che correva ad avvertirla e faceva scappare Giulio Del Ponte per la parte delle scuderie, quando il Conte o Monsignore si svegliavano prima del solito. La Faustina, rimasta a Fratta come cameriera, non le era miglior compagna. Queste mezze vesticciuole cittadinesche ridotte a vivere in campagna, diventano maestre di vizii e di corruzione; e la Faustina peggio forse di molte altre, perché ve la tirava il temperamento tutt'altro che modesto. La complicità colla padrona le sembrava la miglior arra d'impunità; e potete credere se la aiutava con zelo, e se la eccitava colle suggestioni e coll'esempio! Io mi maraviglio ancora che non ne nascesse sotto gli occhi del Conte e del Canonico qualche gravissimo scandalo; ma forse le apparenze furono peggiori della realtà, e le fatiche corporali e la vita selvatica e vagabonda attutirono per allora nella Pisana gli istinti focosi e sensuali. In ciò io era più disposto tuttavia a veder nero che bianco; perché essendo stato testimonio e compagno delle sue infantili effervescenze, durava grande fatica a credere che l'età più adulta avesse smorzato in lei quello che suole accendere negli altri. Briaco d'amore e di rimembranze, ogni qualvolta un impeto di compassione me la recava fra le braccia e non la sentiva tremare e sospirare come avrei voluto, la gelosia mi torceva l'anima: pensava che a me restassero le ceneri d'un fuoco che avea bruciato per altri, e su quelle labbra dove m'immaginava dover gustare ogni gioia del paradiso trovava invece i tormenti dell'inferno. Ella si stoglieva da me disgustata della mia freddezza, della mia rabbia continua; io fuggiva da lei colle mani nei capelli, colla disperazione nel cuore volgendo nell'animo pensieri di morte e di vendetta. Giulio Del Ponte mi sovveniva allora colla sua fisonomia piena di fuoco, d'ardimento, di vita, co' suoi occhi inondati sempre di gioia e d'amore, col suo sorriso schernitore insieme e procace come quello d'un fauno greco, colla sua loquela pronta, vivace, immaginosa, soave! Io lo odiava in ragione delle immense doti concessegli da natura per ammaliare le donne; mi piaceva di pensare ch'egli non era né bello né robusto né ben fatto, e che la più guercia donzella del contado avrebbe preferito le mie larghe spalle e la mia aperta e sana figura a quel suo corpicciuolo magro, sparuto, convulso. Contuttociò dinanzi alla Pisana mi sentiva nulla appetto a lui; capiva che se fossi stato donna, io pure gli avrei concesso la palma in mio confronto. Dio! cosa non avrei io dato allora per cambiarmi con lui a prezzo di qualunque sacrifizio! — Avessi perduto le forze, la salute, fossi morto sfilato il giorno dopo, non avrei esitato a entrar ne' suoi panni per godere un istante di trionfo, e credere ch'ella mi amava più di se stessa! Sciocco di pensare e di desiderare ciò! Nessuno al mondo esisterà mai, per quanto incantevole e perfetto, che avesse potuto concentrare in sé solo e per sempre tutti gli affetti, tutti i desiderii della Pisana. Io che ne aveva una buona parte, desiderava l'altra: se avessi ottenuto questa, mi sarebbe mancata la prima. Poiché né Giulio, né alcun altro prima o dopo di lui, poté vantarsi di godere al pari di me la confidenza e la stima della Pisana. Io solo, io solo ebbi questa parte più intima e sola forse santa dell'anima sua; io solo, nei pochi intervalli che fui da lei beato d'amore, ho potuto credermi padrone di tutto l'esser suo, veramente amante, poiché l'amava conoscendola com'ella era; veramente amato, perché al sentimento che mi desiderava, la ragione stessa dava la sveglia e l'abbandono soave della gratitudine. Oh! mi si conceda questo unico premio d'un amore sì lungo, paziente, infelice. Mi si conceda di poter credere che come io prelibai le delizie di quell'anima, così solo ne ebbi il pieno godimento. Né lo spettacolo d'un bello e vario prospetto di natura, né l'aspetto d'un quadro finitamente condotto può apprezzarsi degnamente se non da chi ha la vera conoscenza della natura e dell'arte. Nessuno potrà apprezzare certo i tesori di un'anima, se non ne ha indagato con lunga consuetudine e con devoto e profondo amore i più reconditi nascondigli. La Pisana fu una creatura siffatta, che soltanto chi nacque, si può dire, e crebbe con lei, e pensò sempre a lei, e non amò che lei, può averla interamente indovinata. In onta alle lezioni del Piovano io posso assicurarvi che io non era in fin d'allora né un cristiano esemplare, né un giovine scrupoloso. La libertà lasciatami nell'infanzia, e gli esempi altrui sia a Fratta che a Portogruaro ed a Padova, avean lasciata assai lenta la briglia a' miei costumi. Pure coll'avara cautela dell'amore io studiai ogni via per ritrar la Pisana da quel pericoloso sentiero a cui mi pareva avviata. Era carità pelosa, se volete; ma il tentativo era a fin di bene, senza metter in conto altri intenti personali. La Pisana non s'avvide di questi miei sforzi; la Faustina e la Veronica ne indispettirono. Quest'ultima, credo, ebbe paura ch'io intendessi farle la satira a lei ed alla sua manica larga; ma se ella temeva ciò in fatti, doveva farne suo pro' e correggere con qualche accorgimento di severità un'eccessiva indulgenza. Al contrario continuò nella sua cieca condiscendenza, vendicandosi di me collo screditarmi in ogni mala guisa presso la Pisana. Io credo in ultima analisi ch'ella riversasse sopra questa povera disgraziata tutto l'odio che aveva accumulato nel fegato contro la Contessa sua madre in tanti e tanti anni di spregi sofferti e di muta e tremante servitù. Se ne pagava col guastarla nell'ozio, nella frivolezza e nelle famigliarità d'ogni peggior vitupero; non sarebbe questo il primo esempio di simile vendetta per parte di un'aia. Baldracca più sboccata di lei e della Faustina io non mi ricordo di averla trovata mai in nessun porto di mare; ma dinanzi al Conte e a Monsignore sapeva star contegnosa, e tutte le sere nella stanza della Contessa vecchia intonava devotamente il rosario, cui la inferma dal suo letto e una contadinella destinata a vegliarla dopo la partenza della Clara, rispondevano con voce sommessa. La Pisana anche colla nonna usava come cogli altri; una settimana sì ed un'altra no; non v'aveano che suo padre, il Cancelliere e lo zio monsignore che non godessero de' suoi insulti di tenerezza; ma questa era gente di carta pesta, che non aveva anima, che non aveva né indole propria né colore e la Pisana se ne dimenticava. Dubito che si sarebbe anche dimenticata della madre e della sorella, perché la lontananza fu sempre pe' suoi affetti un calmante prodigioso. Ma una lettera della Contessa con un poscritto della Clara la faceva risovvenire ogni due mesi di quella parte di famiglia che viveva a Venezia; siccome poi in quella lettera si davano novelle anche del Contino che era agli ultimi anni della sua educazione, così ogni due mesi le risovveniva di avere un fratello. Gli zii Frumier erano forse i soli che, lontani o vicini, stettero sempre in mente o sulle labbra alla fanciulla. Quel poter nominare un senatore, un parente del doge Manin, e dire “gli è mio zio”, era per lei una discreta soddisfazione, e se la prendeva sovente anche senza una stretta necessità. Giulio Del Ponte e la Veronica le menzionavano sovente suo zio senatore quando la vedevano sconvolta o annuvolata. A quelle magiche parole si rasserenava, si ricomponeva immantinente per dilagarsi in gran chiacchiere sulla potenza e sull'autorità del Senatore, sui suoi palazzi, sulle sue ville, sulle sue gondole, sulle vesti di seta, sulle gemme e sui brillanti della zia. E quante maggiori splendidezze narrava, tanto più vi scivolava sopra colla lingua senza alcun sussiego quasi a dimostrare che di cotali cose essa aveva troppa consuetudine per esserne maravigliata. Invece, poverina, né gioie, né ville, né palazzi essa aveva veduto mai fuori del palazzo del Frumier a Portogruaro, e della

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Argomenti: grande fatica,    sorriso schernitore,    unico premio,    vario prospetto,    profondo amore

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