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Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 197meriti. Infatti cascare dall'Intendenza di Bologna all'amministrazione d'una credenza non era piccolo precipizio; ma per quanto io sia in origine patrizio veneto dell'antichissima e romana nobiltà di Torcello, la superbia fu raramente il mio difetto; massime poi quando parla più alto il bisogno. Per me sono della opinione di Plutarco, che sopraintendeva, dicesi, agli spazzaturai di Cheronea coll'egual dignità che se avesse presieduto ai Giuochi olimpici. La mia carica importava la dimora nel palazzo, e una maggiore dimestichezza colla signora Contessa: ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno; ma mi proponeva di togliere alla signora la brutta idea ch'ella aveva dovuto farsi di me nella visita del giorno prima. Invece la trovai contentissima di me e delle mie nobili e gentili maniere; in verità che cotali elogi mi sorpresero, e che alle signore milanesi dovessero piacer tanto gli ubbriachi non me lo sarei mai immaginato. Ella mi trattò più da pari a pari che da padrona a maggiordomo, squisitezza che mi racconsolò della mia nuova condizione, e mi fece scrivere all'Aglaura, a Lucilio, a Bruto Provedoni, al colonnello, alla Pisana, lettere piene d'entusiasmo e di gratitudine per la signora Contessa. Verso la Pisana poi io intendeva con ciò vendicarmi della sua trascuratezza; e cercare di stuzzicarla un poco colla gelosia. La strana vendetta ch'ella avea tratto altre volte d'una mia supposta infedeltà non m'avea illuminato abbastanza. Ma dopo cinque e sei giorni cominciai ad accorgermi che la Pisana non poteva avere tutto il torto ad ingelosire della mia signora padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera che o io era un gran gonzo o m'invitava a confidenze che non entrano di regola nei diritti d'un maggiordomo. Cosa volete? Non tento né scusarmi, né nascondere. Peccai. La casa della Contessa era delle più frequentate di Milano, ma in onta al temperamento allegro della padrona di casa le conversazioni non mi parevano né disinvolte né animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco teneva strette le labbra e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi, secondo me, scarseggiava la gioventù, e la poca che vi interveniva era così grulla così scipita da far pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno della croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al tu per tu o in ristretto crocchio di famiglia era vivace e corriva forse più del bisogno, nella conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato, una guardatura tarda e severa, un modo di mover le labbra che pareva più adatto a mordere che a parlare ed a sorridere. Io non ci capiva nulla: massime allora poi, con quel fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività del governo italico. Due settimane dopo ne capii qualche cosa. Fu annunziato un ospite da Venezia, e rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l'avvocato Ormenta. Egli non mi conobbe, perché l'età e le fogge mutate mi rendevano affatto diverso dallo scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui perché non mi garbava di rappiccarla per nessun verso. Sembra ch'egli venisse a Milano per raccomandare sé ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu un andirivieni maggiore del solito di generali francesi e di alti dignitari italiani. Alcuni ministri del nuovo Regno stettero chiusi molte ore coll'egregio avvocato; ed io mi struggeva indarno di sapere perché mai dovesse immischiarsi nelle faccende del governo francese in Italia un consigliere principale del governo austriaco. Anche questo lo seppi poco dopo. L'accorto avvocato aveva preveduto la battaglia di Austerlitz e le sue conseguenze; egli passava dal campo di Dario a quello d'Alessandro per rimediare dal canto suo ai danni della sconfitta. A chi poi si meravigliasse di veder maneggiata da dita femminili una sì importante matassa, risponda la storia che le donne non ebbero mai tanta ingerenza nelle cose di Stato, quanto durante i predominii militari. Lo sapeva la mitologia greca che mescolò sempre nelle sue favole Venere a Marte. Le notizie prime della vittoria di Austerlitz giunsero a Milano innanzi al Natale; se ne fece un grande scalpore. E crebbe quando si ebbe contezza della pace firmata il giorno di santo Stefano a Presburgo, per la quale il Regno d'Italia s'allargava ne' suoi confini naturali fino all'Isonzo. Io dimenticai per un istante la quistione della libertà per mettermi tutto nella gioia di riveder Venezia, e la Pisana, e mia sorella e Spiro e i nipoti, e i carissimi luoghi dove s'era trastullata la mia infanzia e viveva pur sempre tanta parte dell'anima mia. Le lettere che mi scrisse allora la Pisana non voglio ridirvele per non tirarmi addosso un troppo grave cumulo d'invidia. Io non mi capacitava come tutti questi struggimenti potessero combinarsi colla noncuranza dei mesi passati; ma la contentezza presente vinceva tutto, soperchiava tutto. Pensando a null'altro, io salii dalla signora Contessa colle lagrime agli occhi, e lì le dichiarai che dopo la pace di Presburgo... — Cosa mai?... Cosa c'è di nuovo dopo la pace di Presburgo? — mi gridò la signora tirando gli occhi come una vipera. — C'e di nuovo ch'io non posso più fare né l'intendente, né il maggiordomo... — Ah! mascalzone! E me lo dite in questa maniera?... Son proprio stata una buona donna io a mettere... tutta la mia confidenza in voi!... Uscitemi pure dai piedi e che non vi vegga mai più!... Era tanto fuori di me dalla consolazione che questi maltrattamenti mi fecero l'effetto di carezze: non fu che dopo, al tornarci sopra, che m'accorsi della porcheria commessa nell'accomiatarmi in quel modo. Certi favori non bisogna dimenticarseli mai quando una volta furono accettati per favori, e chi se ne dimentica merita esser trattato a calci nel sedere. Se la Contessa usò meco con minore durezza, riconosco ora che fu tutta sua indulgenza; perciò non mi diede mai il cuore di unirmi ai suoi detrattori quando ne udii dire tutto il male che vedrete in appresso. La Pisana mi accolse a Venezia col giubilo più romoroso di cui ell'era capace ne' suoi momenti d'entusiasmo. Siccome io avea provveduto che mi si lasciasse libero almeno un appartamentino della mia casa, ella voleva ad ogni costo accasarsi presso di me: ghiribizzo che troverete abbastanza strano raffrontato colla tenerezza e colle cure da lei prodigate fino allora al marito. Ma il più strano si fu quando il vecchio Navagero, disperatissimo di cotal risoluzione della moglie e della valente infermiera che era in procinto di perdere, mi mandò a pregare in segreto che piuttosto andassi io ad abitare presso di lui che m'avrebbe veduto con tutto il piacere. L'era un portar troppo oltra la tolleranza veneziana; e da ciò capii che l'apoplessia lo aveva liberato perfettamente de' suoi umori gelosi. Ma io non mi degnai di arrendermi alle gentili preghiere del nobiluomo; feci parte di questi miei scrupoli alla Pisana, e suo malgrado pretesi che la restasse presso il marito. L'amore avrebbe riguadagnato in freschezza e in sapore quel poco che ci perdeva di facilità. Anche Spiro e l'Aglaura mi volevano con loro; ma io aveva fitto il capo nella mia casetta di San Zaccaria, e non mi volli movere di là. Così vissi spensierato d'ogni cosa e beatissimo fino alla primavera, stando il più che poteva alla larga dalla Contessa di Fratta, da suo figlio, ma godendo le più belle ore della giornata in compagnia della mia Pisana. La pietà di costei per quel vecchio e malconcio carcame del Navagero trascendeva tanto ogni misura, che talvolta mi dava perfino gelosia. Succedeva non di rado che dopo le visite più noiose ed importune, rimasti soli un momento ella correva via di volo per cambiare il cerotto o per versar la pozione al marito. Questo zelo in eccesso mi infastidiva e non potea fare che qualche fervida preghiera non innalzassi al cielo per ottenere al povero malato le glorie del paradiso. Non c'è caso. 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