Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 186

Testo di pubblico dominio

l'Europa. A forza di disagi, di patimenti, di costanza e di crudeltà si giunse ai primi di giugno, quando già Bonaparte era precipitato come un fulmine a turbare le tranquillissime guerricciole di Melas contro Suchet, e s'erano rialzate in Milano le speranze degli Italiani. La resa di Genova si chiamò convenzione e non capitolazione, gli ottomila uomini di Massena passarono opportuni ad ingrossare l'armata del Varo, e dai nuovi conquistatori della Liguria non si parlò allora di ristaurare l'antico governo come non se ne parlava punto in Piemonte. Ma era ben tempo quello da pensare a ristaurazioni! Melas a marce forzate raccozzava i corpi sparsi dell'esercito sulle rive della Bormida, proprio rimpetto a quel punto dove Napoleone prima di partir da Parigi avea messo il dito sulla carta geografica dicendo: — Lo romperò qui! — E così questi s'affrettava a lasciar Milano, a passar il Po, a vincere col luogotenente Lannes a Montebello, a stringer il nemico intorno ad Alessandria. Stranissima posizione di due eserciti ciascuno de' quali aveva la propria patria alle spalle dell'inimico! In questo mezzo gli esulanti di Genova, secondo i patti della convenzione, si trasportavano sopra navi inglesi ad Antibo. Io, la Pisana, Lucilio e Bruto Provedoni eravamo del numero. Bruttissimo viaggio e che mi privò delle mie ultime doble. A Marsiglia fui contentissimo di trovar un usuraio che mi scambiasse al trenta per cento le cedole austriache e siccome era già pervenuta la notizia della vittoria di Marengo, ripigliammo tutti insieme la strada d'Italia. Si sperava assai; si sperava più che non si riconquistò, e il riconquisto d'allora fu quasi miracolo. Ma nessuno avrebbe immaginato che Melas si disanimasse per una prima sconfitta; e la continuazione della guerra allargava il campo delle lusinghe fino a far travedere in lontananza la restituzione di Venezia in libertà o il suo aggiungimento alla Cisalpina. Invece incontrammo per istrada la nuova della capitolazione di Alessandria, per cui Melas si ritraeva dietro al Po ed al Mincio e i Francesi rioccupavano Piemonte, Lombardia, Liguria, i Ducati, la Toscana, le Legazioni. Il nuovo Papa, eletto a Venezia e da poco rientrato in Roma fra le fastose accoglienze degli alleati napoletani, credeva aver che fare a riconquistar il potere dalle mani troppo tenaci degli amici; invece dovette accettarlo dalla clemenza dei nemici firmando con Francia un concordato ai 15 luglio. Ma il Primo Console s'atteggiava allora a protettore dell'ordine della religione della pace; e Pio VII, il buon Chiaramonti, gli credeva senza ritegno. Le nuove consulte provvisorie pullulavano ovunque, con questo nuovo sapore di pace di ordine di religione. Lucilio e tutti i vecchi democratici ne torcevano il grugno; ma Bonaparte blandiva ubbriacava il popolo, accarezzava i potenti, premiava largamente i soldati, e contro simili ragioni non v'ha stizza repubblicana che tenga. Io per me, fedele agli antichi principii, sperava nelle nuove cose, perché non sapea figurarmi che di tanto avessero cangiato gli uomini in così breve tempo. Per questo non mi andò a verso che Lucilio rifiutasse una carica cospicua offertagli dal nuovo governo; e per me accettai volentieri un posto d'auditore nel Tribunal militare. Indi, siccome si abbisognava di amministratori galantuomini, mi traslocarono segretario di Finanza a Ferrara. Non mi spiaceva il guadagnarmi onoratamente un pane, perché tra le dodicimila lire lasciate alla vedova del Martelli sopra una casa bancaria di Napoli, le doble spese a Genova, e le cedole negoziate a Marsiglia tutto il peculio consegnatomi da mio padre prima di morire se n'era ito in fumo. Il colonnello Giorgi mi veniva dicendo, anche allora a Milano, che mi raccomandassi a lui e che m'avrebbe fatto creare maggiore del Genio o dell'artiglieria; ma vivendo io colla Pisana, la carriera militare non mi quadrava, e mi si attagliavano meglio gli impieghi civili. Infatti a Ferrara ci accasammo molto onorevolmente. Bruto Provedoni che ci aveva accompagnato fin là diretto per Venezia e pel Friuli ci promise che avrebbe scritto amplissime informazioni sopra tutto ciò che ci premeva sapere; e noi contenti di esserci salvati con tanta fortuna da quel turbine che aveva inghiottito gente più grande ed accorta di noi, stettimo ad aspettare con pazienza che imprevisti avvenimenti finissero di mettere la nostra vita perfettamente in regola. La morte di Sua Eccellenza Navagero che non doveva esser lontana mi stava molto a cuore. Poveretto! Non gli augurava male; ma dopo aver vissuto abbastanza felice oltre ad una settantina d'anni poteva bene lasciar il posto a un pochetto di felicità per noi. Senza volerlo, credo che mi moderassi anch'io secondo le opinioni più discrete di quel secondo periodo repubblicano: quell'amore spensierato ubbriaco delirante, che correva naturalmente fra le passioni ardenti e sfrenate della rivoluzione, sconcordava alquanto colle idee legali sobrie compassate che tornavano a galla. Infine il concordato colla Santa Sede mi piegava mio malgrado a pensieri di matrimonio. La Pisana non dava alcun sentore di quello che sperasse o disegnasse fare. Tornata alla vita solita era tornata alle solite disuguaglianze d'umore, alla solita taciturnità variata da improvvisi eccessi di ciarle e di riso, al solito amore condito di rabbia di gelosie e di spensieratezza. Ascanio Minato, ch'era divenuto capitano e avea lasciato a Milano la volubile contessa rubata ad Emilio, ottenne in quel torno d'essere di guarnigione a Ferrara. Anche a Genova egli ronzava intorno alla Pisana senza poterla avvicinare per la nessuna [cura] che costei si dava di lui nelle diversissime occupazioni di quel tempo. Ma a Ferrara non le parve vero di poter variare d'alcun poco la noia domestica, e s'adoperò tanto che dovetti consentire l'ingresso in mia casa al brillante ufficiale. Costui mi spiaceva per tutte le ragioni: per le sue gesta anteriori, pel mio amor proprio, per la memoria del povero Giulio, per la baldanza del portamento e del parlare, per l'affettazione francese, buffa e spregevole in un còrso. Ma mi guardava bene dal dargli carico di tutto ciò in presenza della Pisana; sapeva che alle volte nulla più nuoce d'un biasimo inopportuno, massime presso le indoli che amano l'assurdo e la contraddizione. Perciò stava composto e con bella creanza; come si conviene ad un magistrato ad un padrone di casa; ma teneva ben aperti gli occhi in testa, e il signor Minato aveva raramente il coraggio di incontrarli coi suoi. L'Aglaura e Spiro scrivevano da Venezia notizie piuttosto varie che buone. Avevano avuto un secondo bambino, ma la loro madre era morta, e ne vivevano inconsolabili; il commercio loro prosperava, ma la cosa pubblica sembrava in balìa più dei tristi che dei buoni. Il Venchieredo padre spadroneggiava senza pudore ostentando maniere linguaggio e alterigia forestiere. Spiro, che avea dovuto presentarglisi per implorar la liberazione d'un suo compatriota relegato a Cattaro coi repubblicani catturati in terraferma, avea dovuto convenire che i padroni stranieri valgono meglio dei fattori e castaldi nazionali. L'avvocato Ormenta era compagno al Venchieredo in quella trista opera, ma s'infamava meglio per occulte ladrerie che per aperte sopraffazioni. Operavano i consigli del padre Pendola; il quale ad onta della cacciata da Portogruaro e del discredito in cui era tenuto dalla Curia di Venezia avea saputo formarsi un certo partito nel clero meno educato; e da taluni era tenuto per un martire, da altri per un birbante. I vecchi Frumier erano morti ambidue a un mese di distanza l'un dell'altro; dei giovani, Alfonso avea rinunciato al matrimonio per ottenere una commenda dell'Ordine di Malta, e non si sapeva nemmeno ch'egli esistesse; ma si diceva ch'egli corteggiasse una certa dama Dolfin più vecchia di lui d'una quindicina d'anni, e stata già moglie d'un correggitore a Portogruaro. — Io me ne sovvenni, la ricordai alla Pisana, e ne risimo

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