Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 249

Testo di pubblico dominio

maledizione! Ma tu hai creduto alla veracità delle parole che ti scrissi da Padova; non badando alla mia vita dissoluta e superba t'affidasti alla costanza dei nuovi proponimenti, e appena puoi conoscere il luogo di mia dimora ecco che mi giungono da te parole di lode, di conforto, di benedizione! Oh come ho baciato riverente e commosso quel foglio che mi recava la certezza dell'amor tuo, della tua stima! Ti ringrazio, o padre mio, perché ti sei fatto solidale e rivendicatore dell'onor mio presso i nostri concittadini. Certo che le tue parole meglio che le mie opere varranno a redimermi dal loro disprezzo; ma lascia tuttavia ch'io combatta e vinca da me solo, finché possa non ricompensare ma esser degno della tua tenerezza. Ho baciato e ribaciato la tua lettera, ho accolto con dovuta gratitudine la tua benedizione, e ieri nell'imbarcarmi ne rileggeva il tenore e mi piovevano dagli occhi le lagrime. — Eh, eh! giovinotto — disse un vecchio marinaio nel darmi braccio a salire sul cassero. — Consolatevi, passerà. Lontan dagli occhi, lontan dal cuore; così è l'amore! Egli credeva che una lettera dell'amante mi facesse piangere a quel modo; credeva che avessi lasciato nella mia patria qualche mesta donzella che sospirasse al mio ritorno forse coll'anello della promessa nel dito!... Felici illusioni!... Che altro ho io lasciato a Venezia se non il disprezzo del mio nome, e, Dio lo volesse appieno, dimenticanza? Voi solo, padre mio, e mia madre, e mia sorella, serberete memoria non disdegnosa del povero Giulio, e l'anima mia, non beata d'altro che d'amar voi, si consacra fin d'ora a rendere non iniqua la vostra bontà! ROMA, 9 febbraio 1849 Città eterna! Spettro immenso e terribile! Gloria, castigo, speranza d'Italia! Innanzi a te tacciono le ire fraterne, come dinanzi alla giustizia onnipresente. Tu sollevi la voce, e tacciono intenti i popoli dalle nevi dell'Alpi alle marine dell'Ionio. Arbitra sei del passato e del futuro. Il presente s'interpone come un punto, nel quale tu non puoi capire con tanta mole di memorie e di speranze. Oggi, oggi stesso un grande nome risorse dall'obblio dei secoli; e l'Europa miscredente e contraria non avrà coraggio di ripeterlo col solito ghigno: lo spirito trabocca dalle parole, sia rispetto o paura egli vi costringerà, tutti quanti siete, a pronunciarla con labbra tremanti. Ma ogni respiro di Roma è espiato con qualche vittima sanguinosa. Nacque dal fratricidio, la liberò il sangue di Lucrezia, e Virginia scannata e le recise teste dei Gracchi bruttarono le più belle pagine della sua storia. Il pugnale di Bruto atterrò un gigante, e aperse la strada ai nipoti, striscianti nel fango. Ed anche ora proviene da un assassinio l'audacia del grande conato. Ne giudichi Iddio. Certo anche la coscienza ha i suoi momenti d'ebbrezza che non offuscano per altro l'immutabile santità delle leggi morali. Ma rifiuteremo noi gli effetti per la turpitudine della causa? E chi avrà il diritto di chieder conto ad un'intera nazione del delitto d'un uomo? Le storie vanno piene di simili esempi, e forse nell'ordine immenso della Provvidenza le grandi colpe sono compensate da più grandi e generali virtù. Se fossimo anco destinati a nuove disgrazie, a funeste cadute, non accuserò il coltello d'un assassino della rovina d'un popolo. Dio punisce ma non vendica. Altre colpe non ancora scontate vorranno altre lagrime; e l'assassino nasconderà nelle tenebre i suoi rimorsi, e noi mostreremo alteramente alla faccia del sole il capo coperto di cenere e gli occhi splendenti di speranza. ROMA, giugno 1849 Aveva giurato di non aggiungere una parola, se non avessi a scrivere la mia redenzione. Eccomi finalmente... Ho ripreso il mio nome, l'onor mio! La mia famiglia la mia patria saranno contente di me, ed io godo nel vergar queste righe di sentir il dolore della ferita, e di veder la pagina imbrattarsi di sangue. V'hanno nella mia legione alcuni giovani padovani che altre volte conobbi. Costoro mi sopportavano assai malvolontieri, e credo mi designassero alla diffidenza dei compagni; ma io fingeva non m'accorgere di nulla, aspettando che i fatti parlassero per me. Era tempo, giacché temeva che a lungo andare avrei perduto ogni pazienza. Da dieci giorni i Francesi hanno aperta la trincea contro San Pancrazio. Gli assalitori ingrossavano sempre più; ma iersera s'interpose una specie di tregua e i nostri ne approfittarono per dar riposo ai soldati. Soltanto una mezza coorte custodiva disposta in catena quel tratto minacciato dei bastioni; io stava in guardia dietro una gabbionata costrutta pochi giorni innanzi e già ridotta a mucchi dal tempestar delle bombe. La notte era profonda; e si vedevano da lontano i fuochi del campo d'Oudinot. Tutto ad un tratto io sentii giù nel fosso uno scalpitar di pedate; pareva che le scolte sonnecchiassero, giacché non diedero alcun segno; io gridai “all'armi!”, e prima che mi venisse intorno una dozzina di legionari, già una colonna di cacciatori francesi guadagnava per la breccia il sommo del bastione. Mi ricordai di Manlio e solo colla mia baionetta ributtai i primi; l'altura della posizione mi favoriva e fors'anco il comando che avevano gli assalitori di non sparare se non si fossero prima stabiliti sul bastione. Infatti essi non potevano offendermi di punta dal sotto in su, e indietreggiando misero qualche scompiglio nella prima fila che disordinò del pari la seconda. Credevano forse che un maggior numero di difensori guernisse il muro e vi fu un istante ch'io credetti d'aver bastato da solo a sgominare l'assalto. Ma in quella l'officiale che comandava la fazione, come spazientito del timore de' suoi, balzò innanzi e giunse sul bastione gridando e incoraggiandoli colla spada sguainata; gli altri ripresero animo e lo seguirono tosto. Io non sapeva che fare; tornai a urlare: “all'armi! all'armi!”, con quanto fiato aveva in corpo, e mentre alcuni legionari accorsi al grido si opponevano all'irruzione della colonna, io mi slanciai sull'officiale e prima che avesse tempo di adoperare la sciabola lo disarmai; egli aveva alla cintola una pistola, me ne scaricò un colpo a bruciapelo che non mi portò via fortunatamente altro che la falange d'un dito. Ma intanto i difensori spesseggiavano; il bastione rimbombava di fucilate, gli uomini accorrevano ai cannoni, e i cacciatori, divisi dal loro capo ch'io aveva fatto prigioniero, furono respinti nel fosso. In pari tempo un altro assalto minacciava l'altra estremità della cortina, ma parte dei nostri ebbe tempo di accorrere colà, finché arrivarono gli aiuti delle caserme; e si seppe poi da alcuni prigionieri che tutto in quella notte era disposto per una sorpresa; ma che non era riescita per esser stata respinta la ricognizione dei cacciatori. Debbo render giustizia ai miei compagni i quali tutti attribuirono a me l'onore di quel fatto d'armi, e chiesero unanimi ai capi che ne fossi ricompensato. Il giorno appresso, alla rassegna generale alla quale comparvi colla mano bendata, fu letto un ordine del giorno nel quale si rendevano pubbliche grazie al gregario Aurelio Gianni per aver bene meritato della patria, e lo si innalzava al grado di alfiere. Tutti gli occhi si volsero verso di me: io chiesi licenza di parlare. “Dite pure” soggiunse il capitano: giacché nelle nostre schiere la disciplina non era né tanto muta né così severa come negli altri eserciti. Io buttai uno sguardo verso quei giovinotti padovani che stavano in fila poco lunge da me, e alzando tranquillamente la voce: “Chieggo” soggiunsi “come unica grazia di rimanere gregario, ma di essere onorato d'una pubblica lode sotto il mio vero nome. Una di quelle solite tacce di spionaggio e di tradimento che disonorano le nostre rivoluzioni mi costrinse momentaneamente a lasciarlo; ora che spero aver persuaso del loro torto i miei calunniatori, lo riprendo con orgoglio. Mi chiamo Giulio Altoviti; sono di Venezia!”. Un applauso generale scoppiò da tutte le file; credo che

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Argomenti: pari tempo,    vecchio marinaio,    spettro immenso,    grande nome,    rassegna generale

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