Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 236

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diceva troppo. Perché con Alfieri con Foscolo con Manzoni con Pellico era già cresciuta una diversa famiglia di letterati che onorava sì le rovine, ma chiamava i viventi a concilio sovr'esse: e sfidava o benediva il dolore presente pel bene futuro. Leopardi che insuperbì di quella ragione alla quale malediceva, Giusti che flagellò i contemporanei eccitandoli ad un rinnovamento morale, sono rampolli di quella famiglia sventurata ma viva, e vogliosa di vivere. Il disperato cantore della Ginestra e di Bruto sapeva meglio degli altri che soltanto la lunghezza della vita può sollevar l'anima a quella sublimità di scienza che comprende d'uno sguardo tutto il mondo metafisico e non s'arresta ai gemiti fanciulleschi d'un uomo che si spaura del buio. Giulio, il mio figliuoletto, si sarebbe assai vantaggiato della compagnia e della conversazione di Lucilio se questi fosse rimasto più a lungo con noi. Ma pur troppo il suo male si aggravò all'aprirsi della primavera, e giusta le sue previsioni lo condusse ben presto a morire. Egli spirò guardandomi fieramente in volto quasi mi vietasse di compiangerlo; la Clara era nell'altra camera che pregava per lui, e l'ultima parola del moribondo fu questa: — Ringraziala! — Infatti io la ringraziai, ma non sapeva bene di cosa. Per quanto l'avessi pregata non avea consentito a consolare il morente della sua presenza; ma siccome ella faceva uno studio peculiare di attraversare le proprie voglie, così mi è lecito il credere che ne sentiva anzi desiderio; e che offerse anche quel sacrifizio per maggior bene dell'anima di lui. Io rimasi più meditabondo che addolorato dopo la perdita di Lucilio; ma mi diede molta stizza il piacere che ne dimostrò mia moglie senza alcun riguardo. Secondo lei la frequenza del dottore in casa nostra metteva a pericolo la moralità de' suoi figliuoli, e Dio le avea fatto una grazia segnalata mandandolo all'ultima dimora che gli avea destinata. Quel giorno appiccai coll'Aquilina una furiosa battaglia, che non passò senza lagrime e senza strepiti; ma pazientava anche troppo, e una tale ingiustizia mescolata a tutto potere di riconoscenza, meritava le scopate. Confesso che io né ebbi né avrò mai la serena pacatezza di Lucilio. Del resto la morte di questo come già quella della Pisana mi persuase sempre più che ad esser forti e generosi c'è sempre da guadagnare. Non foss'altro si muore allegramente: e questa, oltrecché ventura desiderabilissima, è anche la pietra del paragone su cui si differenziano i galantuomini dai tristi. Durante la vita c'è di mezzo l'ipocrisia; ma sul gran punto!!... Eh, credetelo, amici miei, non si ha né tempo né voglia di far la commedia. E il castigo più grande e più certo dei birbanti è quello di morire tremando. Nel riandare la mia storia io penso sempre alla margheritina, a quel modesto fiorellino dal botton d'oro e dai raggi bianchi, sul quale le zitelle traggono il pronostico d'amore. Una per una le cavano tutte le foglie, finché resta solo l'ultima, e così siamo noi che dei compagni coi quali venimmo camminando lungo i sentieri della vita, uno cade oggi l'altro domani e ci troviamo poi soli, melanconici nel deserto della vecchiaia. Alla morte di Lucilio tenne dietro quella di mio cognato, Spiro, la quale ci fu annunciata da Luciano e raddoppiò il lutto del mio cuore. Quanto a lui, egli non pensava più di abbandonare la Grecia ed io l'avea preveduto che l'ambizione dovea soperchiare in quel giovane qualunque altro sentimento. S'era un po' scoraggiato dopo l'assassinamento del conte Capodistria, ma poi all'assunzione al trono di re Ottone aveva ottenuto un buon posto nel Ministero della guerra, e di colà agognava i posti più alti coll'avida pazienza del cane che mette il muso sul ginocchio del padrone per aver un tozzo del suo pane. Di noi, di Venezia, dell'Italia egli non parlava più che come di altrettante curiosità: più affettuosamente forse mi scriveva sua moglie, benché dai figliuoli di Spiro sapessi che non la trattava molto bene. E già s'intende che della trascuranza di Luciano mia moglie seguitava ad accagionar me come della morte di Donato. Peraltro nei due o tre anni che seguirono, disgrazie che colpirono più direttamente lei me la resero un po' più indulgente; e di ciò ebbi ed avrò sempre rimorso pei grandi malanni che provennero dalla mia fiacca indulgenza. Le mancarono ad uno ad uno tutti i suoi fratelli, e non restava più che Bruto il quale sopportava assai lietamente il crescer degli anni, e solamente si lamentava che il destino gli prefiggesse per dimora Venezia ove gli spessissimi ponti davano un soverchio incommodo alla sua gamba di legno. Così noi andavamo pian piano scadendo verso la vecchiaia, mentre il paese racquistava la sua gioventù, e quello che seguì poi prova abbastanza che tutti quegli anni non furono né perduti né dormiti come cianciano i pessimisti. Dal nulla nasce nulla: è assioma senza risposta. CAPITOLO VENTESIMOSECONDO Nel quale è dimostrato a conforto dei letterati come il conte Rinaldo scrivendo la sua famosa opera sul Commercio dei Veneti si consolasse pienamente della sua miseria. Tristissima piega di mio figlio Giulio e temperamento comico della piccola Pisana. I giovani d'adesso valgono assai meglio dei giovani d'una volta; e sbagliando s'impara, quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si deve. Fuga di Giulio e visita dei vecchi amici. Feste e lutti pubblici e privati durante il 1848. Ritorno in Friuli, dove alcuni anni dopo ricevo la notizia della morte di mio figlio. Vi sarete accorti che di tutte le professioni cui io mi dedicai, a nessuna mi avea condotto il mio libero arbitrio; e che o la volontà degli altri, o la necessità del momento, o un concorso straordinario di circostanze m'aveano dato in mano il partito bell'e fatto senza ch'io potessi pur ragionarci sopra. Nella negoziatura poi io m'era immischiato per puro riguardo a mio cognato; e se non me ne stolsi quando la ditta Apostulos ebbe finito di liquidare i conti, fu solamente perché il maneggio commerciale de' miei piccoli capitali mi serviva a parar innanzi la famiglia. Intorno al quaranta peraltro essendo io divenuto vecchio e debole ancora negli occhi, e sommando già la mia sostanza a tanto che anche impiegata in fondi poteva darmi di che vivere, deliberai ritirarmi affatto dal commercio. A ciò fare m'ingegnava da qualche tempo, quando l'Internunziatura di Costantinopoli mi diede avviso che il governo ottomano avea finalmente riconosciuto in parte il credito di mio padre; e che se non la più grossa somma della quale si ritenevano debitori gli eredi del Gran Visir d'allora, almeno un rilevante capitale mi sarebbe pagato. Lucilio, tre quattr'anni prima m'avea già avvertito che l'Ambasceria inglese non avea trascurato quest'affare e che solamente lo rallentava il misero stato delle finanze della Porta, ma io non avrei mai creduto che si dovesse giungere a qualche risultato: e perciò mi parvero un grazioso presente le ottantamila piastre che mi furono contate, e quanto agli eredi del Visir li lasciai in pace perché mio figlio Luciano, incaricato di prenderne contezza, aveva risposto ch'erano tutta gente oscura e miserabile. Tra le ottantamila piastre e i trentamila ducati che mi fruttò la liquidazione finale dei miei conti, formai una bella somma, colla quale comperai un grande e bel podere intorno alla casa Provedoni di Cordovado, nonché molti fondi del patrimonio Frumier, dei quali il dottor Domenico Fulgenzio cercava sbarazzarsi per adoperare più liberamente la propria sostanza nel circuire e incorporarsi quella degli altri. Tuttavia l'educazione di Giulio consigliandoci la dimora in città, continuammo ad abitare la mia casa paterna di Venezia: pei due mesi d'autunno si prendeva a pigione un casino sul Brenta e là si godeva dell'aria libera e d'una compagnevole villeggiatura. A poco a poco m'era avvezzato a Venezia, ch'era diventato anch'io come quel dabbenuomo che non potea vivere un

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Argomenti: dolore presente,    studio peculiare,    temperamento comico,    concorso straordinario,    puro riguardo

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