Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 199

Testo di pubblico dominio

che non vi si sbaglia d'un capello. Ma allora io era tanto indemoniato che di cagnetta e padrona avrei fatto un fascio per gettarlo in laguna. Dite ch'io mi vanto d'un'indole mite e rassegnata! Che avrebbe fatto nel mio caso un cervello caldo e impetuoso io non lo so. In tutto questo l'unico punto che non appariva oscuro si era la perfidia della Pisana verso di me, e il suo invasamento per Raimondo Venchieredo. Che costui poi fosse la causa della mia sventura, non lo potea dire di sicuro, ma amava crederlo per potermi scaricare sopra taluno di quel gran bollore di odio che mi sentiva dentro. Per metter il colmo al mio delirio, ebbi a quei giorni una lettera da Lucilio così agghiacciata, così enigmatica che per poco non la stracciai. Che tutti amici e nemici si fossero data la parola per menarmi all'estremo dell'avvilimento e della disperazione?... Quel colpo poi che mi veniva da Lucilio, dall'amico il di cui giudizio io poneva sopra il giudizio di tutti, da quello che avea regolato fin'allora la mia coscienza, e tenutomi luogo di quella costanza di quella robustezza che talvolta mi mancavano, un tal colpo dico, mi tolse perfino il discernimento della mia disgrazia. Cosa non aveva e cosa non avrei io fatto per conservarmi la stima di Lucilio?... Ed ecco che senza dirmi né il perché né il come, senza interrogarmi, senza chiamarmi a discolpa, egli mi dava sentore di avermela tolta. Quali orrendi delitti erano stati i miei?... Qual era lo spergiuro, la viltà, l'assassinio che m'avea meritato una tale sentenza?... Non aveva la mente ordinata a segno da cercarlo. Mi tormentava, mi struggeva, piangeva di rabbia di dolore d'umiliazione; la vergogna mi facea tener curva la fronte sul petto; quella vergogna ch'io sapeva di non aver meritato. Ma così fatti sono i temperamenti troppo sensibili come il mio, che sentono al pari d'una colpa la taccia anche ingiusta di essa. La sfacciataggine della virtù io non l'ho mai avuta. In quei momenti le consolazioni dell'Aglaura diffusero sui miei dolori una dolcezza inesprimibile; per la prima volta avvisai quanto bene stia racchiuso in quegli affetti calmi e devoti che non si ritraggono da noi né per mancanza di meriti né per cambiamento d'opinioni. La mia buona sorella, i suoi figlioletti mi sorridevano sempre per quanto la società mi si mostrasse barbara e nemica. Essi senza parlare prendevano le mie difese al cospetto di Spiro; giacché egli non poteva serbare il viso torvo ed arroncigliato con colui che riceveva carezze e baci continui dalla moglie, dai figlioli, dal sangue suo. Quanto la fiducia de' miei antichi compagni s'allontanava da me, altrettanto mi venivano incontro mille finezze dell'avvocato Ormenta, di suo figlio, del vecchio Venchieredo, del padre Pendola e dei loro consorti. Il buon padre s'era fatto lui il direttore spirituale in quel ritiro di convertite del quale il dottorino Ormenta governava l'economia; e ogniqualvolta m'incontravano erano scappellate, saluti e sorrisacci che mi stomacavano perché sembravano dire: “Sei tornato dei nostri! Bravo! Ti ringraziamo!”. Io aveva un bel che fare, a sgambettare a salvarmi da quei loro salamelecchi; ma la gente li vedeva, li vedeva taluno a cui io era in sospetto; le calunnie pigliavano piede, e non c'era verso ch'io potessi sbarazzarmene, come da quelle caldane paludose dove, affondati una volta, per pestar che si faccia si affonda sempre più. Confesso che fui per darmi bell'e spacciato; poiché se io non mi disperai giammai contro nemici certi e disgrazie ben misurate, non ho al contrario potuto sopportar mai un agguato nascosto e le cupe agonie d'un misterioso trabocchetto. Era lì lì per rinserrarmi in una vita morta, in quella vegetazione che protrae di qualche anno lo sfacelo del corpo dopo aver soffocate le speranze dell'anima; non vedevo più nulla intorno a me che valesse la pena d'un giorno misurato a singhiozzi e a sospiri: io non era necessario e buono a nulla; perché dunque pensare agli altri per sentire peggio che mai il mio crepacuore?... Così se io non deliberava di uccidermi, mi accasciava volontario, e mi lasciava schiacciare dal peso che mi rotolava addosso. Non aveva il furore ma la stanchezza del suicida. Caduti in tanto abbattimento, le carezze degli altri uomini per quanto maligne e interessate ci trovano le molte volte deboli e credenzoni. Godiamo quasi di poter dire ai buoni: “Guardate che i tristi sono migliori di voi!”. Fanciullesca vendetta che volge in nostro danno perpetuo la gioia puerile d'un momento. Gli Ormenta padre e figlio raddoppiarono verso di me di premure e di cortesie; convien dire ch'io avessi qualche grazia presso di loro o che la setta fosse tanto immiserita che non si badasse più a fatica ed a spesa per guadagnare un neofito. Mi circondarono con loro adescatori, misero sotto mezzani e sensali; io rimasi incrollabile. Nullo sì, ma per essi no. Moriva per l'ingiustizia degli amici miei, ma non avrei mai acconsentito a volger contro di essi la punta d'un dito; dietro quegli amici ingannati ed ingiusti era la giustizia eterna che non manca mai, che mai non inganna né rimane ingannata. Questo pensiero di resistenza brulicandomi entro mi ridonò un'ombra di coraggio e un filo di forza. Guardai dietro a me per vedere se veramente l'abbandono di tutti, la perfidia dell'amore, i mancamenti dell'amicizia mi lasciavano così nullo e impotente com'io credeva. Allora risorsero alla mia memoria come in un baleno tutti gli ideali piaceri, tutte le robuste fatiche, e i volontari dolori della mia giovinezza: vidi raccendersi quella fiaccola della fede che m'avea guidato sicuro per tanti anni ad un fine lontano sì ma giusto ed immanchevole; vidi un sentiero seminato di spine ma consolato dagli splendori del cielo, e dalla brezza confortatrice delle speranze, che scavalcava aereo e diritto come un raggio di luce l'abisso della morte e saliva e saliva per perdersi in un sole che è il sole dell'intelligenza e l'anima ordinatrice dell'universo. Allora la mia idea diventò entusiasmo, la mia debolezza forza, la mia solitudine immensità. Sentii che l'opinione altrui valeva nulla contro l'usbergo della mia coscienza, e che in questa sola s'accumulava la maggior somma dei castighi e delle ricompense. Il mondo ha migliaia di occhi, di orecchi, di lingue; la coscienza sola ha la virtù il coraggio la fede. Mi rizzai uomo davvero. E dalla rocca inespugnabile di questa mia coscienza guardai alteramente tutti coloro di cui con tanto dolore avea sofferto il muto disprezzo. Pensai a Lucilio e per la prima volta ebbi il coraggio di dirgli in cuor mio: “Profeta, hai sbagliato! Sapiente, avesti torto!”. Quanta confidenza quanta beatitudine mi venisse da questo coraggio, coloro soltanto possono saperlo che provarono le gioie sublimi dell'innocenza in mezzo alla persecuzione. Più di ogni altra cosa poi giovava a rattemprarmi l'animo la fiducia in quell'istinto retto e generoso che misero avvilito boccheggiante pur m'avea fatto sprezzare le lusinghe dei tristi e degli impostori. Il debole che piange e si dispera d'esser trascinato al patibolo, e pur non consente a guadagnarsi la grazia col tradire i compagni, quello secondo me è più ammirabile del forte che col sorriso sulle labbra si abbandona alle mani del boia. Tremate ma vincete: questo è il comando che può intimarsi anche ai pusillanimi; tremare è del corpo. Vincere è dell'anima che incurva il corpo sotto la verga onnipotente della volontà. Tremate ma vincete. Dopo due vittorie non tremerete più: e guarderete senza batter ciglio lo scrosciar della folgore. Così feci io. Tremai lungamente; piansi ancora mio malgrado degli amici che m'avevano abbandonato; mi straziai il petto coll'ugne, e sentii il cuore battere precipitoso come impaziente di arrivar alla fine delle sue fatiche, mi disperai dell'amor mio che dopo mille lusinghe, dopo avermi aggirato scherzevole e leggiero pei giardini fioriti e per le balze capricciose della giovinezza, mi lasciava solo

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Argomenti: tanto dolore,    cervello caldo,    incontro mille,    direttore spirituale,    danno perpetuo

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