Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 210

Testo di pubblico dominio

Regno era, secondo Spiro, necessaria per cercar l'atto di morte di mio padre, senza del quale il governo turco non intendeva saldare le sue cedole. Dovendo trovar testimoni, e richiamar loro alla mente circostanze dimenticate forse per la lontananza, un tal negozio non poteva trattarsi per lettera. Questo fu il motivo di ottenere il passaporto; del resto era incaricato d'altre bisogne abbastanza delicate per non poterlesi dire a voce alta. Appoggiai la famiglia a Spiro che sarebbe andato a visitarla durante la mia assenza; e partii senza rincrescimento perché la mia discreta conoscenza delle cose napoletane mi faceva obbligo di prestarmi dove poteva; e questa circostanza avendo richiamato gli occhi sopra di me, non volli demeritare dell'altrui fiducia per privati riguardi, benché forse io vedessi più scuro di ogni altro nelle rosee lusinghe di quel tempo. Del resto a Venezia vidi, come potete credere, la Pisana. In verità che ne rimasi maravigliato. Io mi guardava qualche volta allo specchio e sapeva come i quarantacinqu'anni mi si leggessero comodamente sulla fisonomia; ella all'incontro mi parve essere più giovine di quando l'avea lasciata; una maggiore rotondità di forme aggiungeva dolcezza alla sua idea di bontà, ma erano sempre i suoi occhi languidi, infuocati, voluttuosi, il suo bel volto fresco ed ovale, il suo collo morbido e bianco, il suo andare saltellante e leggiero. Aveva un bel che fare ad accordarsi colla monacale rigidezza della Clara, un bel dirmi che facevano vita santa insieme, io la vedeva sempre la mia Pisana d'una volta; e basta!... ma se non avessi avuto moglie!!... Tanto più mi maravigliai di questa sua ottima salute perché bisognava loro, si può dire, guadagnarsi il vitto colle proprie mani; non bastando a pagare i medici e le medicine i pochi quattrini che stillavano a fatica dalle mani aggranchite del Navagero. Costui nella breve visita che gli feci si lodò molto della moglie, ma non mi vide, credo, con molto piacere, per la gran paura che gliela portassi via. — Lo creda, signor Carlo — mi disse — che se mi scappasse via la mia infermiera io ne morrei il giorno dopo! — Eh, vecchio, lo sai pure che si vuol maggior bene ai malati che agli amanti noi altre donne! — gli rispose la Pisana. Il malato strinse la mano a lei ed a me; e li lasciai promettendo che presto nel ripassar da Venezia ci saremmo riveduti. Ma la Pisana mi si dimostrò anche nei commiati assai fredda e contegnosa come si conveniva ad una santa. La sera prima di partire vidi in Piazza il colonnello Partistagno colla moglie; in verità aveva proprio ragione: quella sua baronessa somigliava proprio una cavalla; tanto aveva lunghe le braccia le gambe il muso. Tuttavolta Raimondo Venchieredo le faceva la corte. Costui mi vide appena che s'imbucò nella stanzuccia più scura del caffè Suttil a leggere attentamente la Gazzetta. Era invecchiato, livido, brutto come un vizioso marcio; né io credo che se la guazzasse molto largamente dappoiché suo padre insieme coll'Ormenta aveva avuto la giubilazione a metà soldo. Questi due decrepiti finivano assai male la loro vita subdola e ladronesca; ma l'avvocato stava a miglior partito perché suo figlio era allora a Roma, dicevasi, in missione diplomatica e ne aspettava grandissimo aiuto. Certo non piansi di lasciar a Venezia una tal gentaglia; ma mi dolse che quando partii l'Aglaura era piucchemai afflitta dal suo male di debolezza e di melanconia. Povera donna! Chi avrebbe riconosciuto allora il bel marinaio che m'aveva accompagnato da Padova a Milano al tempo della Cisalpina! CAPITOLO VENTESIMO I Siciliani al campo di Pepe negli Abruzzi. Io faccio conoscenza colla prigione e quasi col patibolo; ma in grazia della Pisana ci perdo solamente gli occhi. Miracoli d'amore d'una infermiera. I profughi di Londra e i soldati della Grecia. Riacquisto la vista per opera di Lucilio, ma poco stante perdo la Pisana e torno in patria vivo non d'altro che di memorie. Povero Adriatico! Quando rivedrai le glorie delle flotte romane di Brindisi, delle navi liburniche e delle galee veneziane? Ora il tuo flutto travolto e tumultuoso sbatte due sponde quasi deserte, e alle fratte paludose della Puglia corrispondono le spopolate montagne dell'Albania. Venezia, una locanda, Trieste, una bottega, non bastano a consolare le tue rive del loro abbandono; e l'alba che ti liscia ogni giorno le chiome ondeggianti cerca indarno per le tue prode altro che rovine e memorie. Quando salpammo da Malamocco il tempo era quieto e sereno. L'inverno non ci pareva quasi nulla, e meno poi nell'alto mare dove la nudità degli alberi e il biancheggiar delle nevi non attestano la vecchiaia dell'anno. Il tepido favonio fiato scherzava a sommo dell'onde, e conduceva all'arida Dalmazia i memori sospiri dell'Africa sorella. Dove sono ora Salona, il rifugio di Diocleziano, ed Ippona, la sede vescovile di Agostino?... Memorie, memorie, sempre memorie traverso queste onde non mai quiete né mutate da secoli, per queste aure sempre dolci e profumate, sopra questa terra eternamente divoratrice e feconda. L'Oriente produsse a rilento una civiltà che stultizza ancora decrepita; il Settentrione bamboleggia da trecento anni nella puerile superbia di chi si crede adulto, e non è forse ben nato ancora. L'Italia per due volte sorpassò l'Oriente e prevenne il Settentrione; per due volte fu maestra e regina al mondo; miracolo di fecondità, di potenza e di sventura. Ella rimugge ancora nelle viscere profonde; senza rispetto agli epicedi di Lamartine e alla sfiducia dei pessimisti, ella può un giorno raggiungere chi sta dinanzi d'un passo e si crede innanzi le mille miglia. Un passo, un passo e null'altro, ve lo dico io; ma è assai lungo a fare. Nei paraggi d'Ancona cominciò lo scirocco a darci noia ed attraversarci il cammino. Il trabaccolo chioggiotto resisteva bene; ma il vento opponeva migliori ragioni delle sue vele, e ci convenne calarle. Ormeggia di qua, ormeggia di là, ci misimo quattro settimane a toccar Manfredonia ov'io doveva sbarcare. Giunsi di là a Molfetta ch'eravamo ai primi di febbraio, e le cerne provinciali concorrevano sul confine dell'Abruzzo per opporsi col general Guglielmo Pepe all'invasione straniera da quella banda. Peraltro il grosso dei nemici si aspettava dalla strada romana, e l'esercito regolare gli si opponeva sotto il comando di Carascosa campeggiando sulla costiera occidentale fra Gaeta e gli Appennini. Io sbrigai le mie faccende in pochi giorni. Il vecchio curato era morto, ma aveva scritto il nome di mio padre fra i decessi nell'anno millesettecentonovantanove; rilevai regolarmente l'atto di morte, e mi affrettai al campo del general Pepe come erano le mie istruzioni. Fui ricevuto assai cortesemente dal giovane generale che aveva grandissima confidenza nelle sue torme di volontari e si proponeva con esse di combattere validamente la diversione che i nemici avrebbero tentato da quella banda. Non si immaginava mai più che Nugent gli sarebbe piombato addosso con tutto l'esercito; perciò, fidandosi molto ancora dei Papalini, divisava afforzarsi meglio facendo una punta a Rieti nello Stato romano. Si occupava appunto dell'esecuzione di questo ardito disegno, quand'io gli fui introdotto dinanzi, e diedi le mie lettere commendatizie. Mi accarezzò molto bene, disse delle speranze che si avevano, e che alla peggio poi il ritorno del Re doveva accomodar tutto senza intervento di forestieri. Allora dal canto mio gli esposi quanto m'era stato commesso; ed egli se ne compiacque molto, soggiungendo che a ciò si poteva pensare ove i nemici, non aprendo nessuna trattativa, fossero venuti alle mani ed egli li ributtasse, come sperava, oltre il Po. Mi disse anzi che c'era al campo un signore milanese incaricato di proposizioni consimili, e che me lo avrebbe fatto conoscere. Ci trovammo infatti a tavola; ma mi dolse assai di ravvisare in esso uno dei più assidui frequentatori della conversazione di casa Migliana; una cotal scelta

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Argomenti: governo turco,    maggiore rotondità,    volto fresco,    monacale rigidezza,    breve visita

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