Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 118

Testo di pubblico dominio

ridonartelo io il tuo papà, ed esser presente alla gioia del vostro riconoscimento. Oh che buon papà che hai, il mio Carlino!... Mi parve che a quelle parole la Pisana arrossasse più del solito, e fosse turbata dagli sguardi ch'io teneva fermi continuamente in lei. Finalmente tornò la Rosa a dire che il mio signor padre finito un affare in Piazza sarebbe stato da noi, e allora io volli ancora uscire in traccia di lui per anticiparmi la gioia di quel soave momento, ma la Contessa mi sforzò tanto che dovetti rimanere. Un'ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d'una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltabeccando nell'anticamera. Io gli era corso incontro fin là; la Contessa, venutami dietro, si pose a gridare: — Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! — Io infatti mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né molto affettuoso né troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava mi fossi nicchiato in un così oscuro bugigattolo come era una cancelleria di campagna, e mi promise, che inscritto che io fossi come suo legittimo figliuolo nel Libro d'Oro, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell'accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per corroborar l'argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinno di zecchini e di doble. Ad ognuno di questi accordi metallici il viso giallognolo della Contessa s'irraggiava d'un roseo riflesso, come il cielo scuriccio d'un temporale all'occhiata di traverso che gli manda il sole. Io poi ascoltava e guardava quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia, colla ricchezza in una mano, la potenza nell'altra, e una larghissima dose di canzonatura in tutte le sue maniere, mi faceva un effetto maraviglioso. Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po' sanguigni un po' loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d'Oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po' autorevoli un po' marinareschi che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo più arabo che veneziano. Si vedeva un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa più caso di nulla, che crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per lungo tempo alla speranza d'una futura commodità, trova tutto agiato tutto commodo perché tutto mena all'ugual fine. Così i mezzi sono alle volte scuola ed esercizio a disprezzar il fine. In tal modo almeno io giudicai mio padre; e confesso sinceramente che mi misi intorno a lui fin dapprincipio con maggior curiosità che amore. Mi pareva che tali dovessero essere stati que' vecchi mercatanti veneziani della Tana o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchiere e d'attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costantinopoli, cristiani a San Marco, e mercanti dovunque, avevano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d'allora. Perfino una certa barbetta rada grigia e stizzosa accostava la fisonomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l'indomani. Tuttociò senza alcun pregiudizio della paterna autorità. Intrattenutici un pochino, con molte interiezioni di cordialità e di maraviglia della signora Contessa, e qualche sospiro represso della Pisana, il signor padre m'invitò ad uscire con essolui: e mi menò infatti a San Zaccaria dove aveva preso alloggio in una bella casa, e addobbatala quasi alla turchesca con tappeti divani e pipe a bizzeffe. Vi si desideravano le tavole, e qualche forziere da riporre le robe, ma vi era per compenso un gran numero di armadi donde si cavava come per incanto ogni cosa che si potesse desiderare. Una mulatta scurissima, di oltre quarant'anni, ammanniva il caffè da mane a sera, e tra lei e il padrone se l'intendevano a cenni e a monosillabi, che era un trastullo a vederli; non credo che parlassero nessuna lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli favellassero come loro nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre corni, si tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si fece versare il caffè, e volle che sedessi come lui incrocicchiando le gambe sopra un tappeto. Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio occupato a compitare il galateo di Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie di avergli essa lasciato una sì bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie procacciategli col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva un occhio sopra alcuni rancidi sospetti che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre a Venezia; finì col confessare che io gli somigliava, massime negli occhi e nell'apertura delle narici; tanto bastava per ricongiungerlo d'un affetto immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo ringraziai a mia volta di così benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva la mia educazione, per la condizione di orfano nella quale era vissuto; non volli aprirgli gli occhi sulla maniera poco onorevole della protezione accordatami dagli zii alla sua venuta; e col mio modesto contegno m'accaparrai, credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi osservava colla coda dell'occhio, e quanto sembrava poco attento alle parole, tanto notava in me tutti gli altri segni dai quali per lunga esperienza aveva imparato a conoscere gli uomini. Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno così dovetti inferire dal maggior affetto dimostratomi in seguito. Indi volle ch'io gli narrassi della contessina Clara, come si era fatta monaca; e mi nominò sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la famiglia di Fratta non si tenesse onorata di imparentarsi con essolui. L'ugualità mussulmana temperava in lui l'aristocrazia naturale; almeno lo credetti, e più mi confermai in questa opinione, quand'egli tirò innanzi beffandosi dell'illustrissimo Partistagno che voleva tener dietro il secolo collo spadone di suo nonno. Io mi stupii di trovar mio padre istruito al pari di me in cotali faccende e che egli ne chiedesse contezza agli altri dove tanta ne aveva lui. Peraltro le cose val meglio saperle da due bocche che da una; ed egli si regolava giusta il sapiente dettato di questo proverbio. Mi parlò poi così in via di discorso della Pisana e dei gran corteggiatori che aveva a Venezia, e del suo torto marcio di non appigliarsi al più ricco per ristorarne la dignità della casa e la fortuna della mamma. “Ahi, ahi!” pensai fra me “ecco l'aristocrazia che rigermoglia!”. Giulio Del Ponte, soprattutto, gli pareva, per usar la sua frase, un saltamartino. La Pisana adoperava male a non torselo d'infra i piedi, che l'era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di melanconia. Le belle ragazze devono badare ai bei giovani, e quei mezzi omiciattoli in Levante si mandano a vender bagiggi per le contrade. Io mi scaldava tutto a questi aforismi del signor padre; e quasi sarei stato lì per fargli una confessione generale. Non mi tratteneva più la compassione per Giulio, ma una certa vergogna di mostrarmi ragazzo e innamorato ad un uomo così esperto e ragionatore. Egli continuava a codiarmi, e intanto narrava le dilapidazioni della Contessa, e la ruinosa indifferenza del conte Rinaldo che si perdeva a far lunari nelle biblioteche, mentre la bassetta e il faraone strappavano di mano a sua madre le ultime razzolature del

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