Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 184

Testo di pubblico dominio

lasciò con un gesto di promessa immanchevole; e pensò forse lungo la strada al modo di non esporsi troppo coi vezzi che avrebbe dovuto fare alla padrona di casa per isnidarle il gatto dal seno. Il giorno appresso non erano le dieci che l'ordinanza di Alessandro mi portò in casa la famosa fiera: infatti il peso non era minore della fama, e non mi ricordava mai d'aver veduto neppur nella cucina di Fratta un gatto così smisurato. — E cosa n'è del tuo padrone? — chiesi con fare svagato all'ordinanza. — L'ho lasciato nella sua stanza che strepitava con tutte le donne della casa — mi rispose il soldato. — Ma egli è avvezzo a tener testa ai Russi, né avrà paura di quattro gonnelle. Un quarto d'ora dopo io avea già consegnato la bestia alla cuoca che ne cavasse la maggior quantità possibile di brodo, intorbidandogli il sapore gattesco con sedani e cipolline, quando mi capitò dinanzi Alessandro tutto sconvolto ed arruffato che pareva Oreste perseguitato dalle Furie, e rappresentato dal Salvini. Appena entrato in camera si buttò sopra una poltrona strepitando e bofonchiando che piuttosto che dar la caccia a un altro gatto sarebbe uscito dai castelli per conquistar un bue contro i Tedeschi, i Russi e quanti altri ne volessero venire. Io aveva più voglia di ridere che di piangere; ma mi trattenni per non fargli dispiacere. — Senti cosa mi capita! — diss'egli dopo aver buttato via il cappello dispettosamente. — Io avea pensato di mandar la portinaia fuori di casa, e la cameriera in cerca della portinaia; sicché in quel frattempo la padrona saliva da me, io le faceva la burletta del gatto, e l'ordinanza aveva libero il campo per accomodarlo a suo modo; intanto portinaia o cameriera tornavano e mi toglievano d'impiccio. Invece, cosa succede?... La portinaia e la cameriera s'incontrano per le scale e cominciano a litigare fra loro; io, dopo aver buttato a terra il gatto, con una specie di abbracciamento alla signora padrona, non so più andare né innanzi né indietro: quel maledetto gatto mi si ostina fra i piedi e la vecchia al collo!... Pesta di qua pesta di là riesco finalmente a metter in fuga la bestia... Ma in quella appunto, cameriera e portinaia entrano accapigliandosi fra loro e veggono me alle prese colla signora. Urla una e strilla quell'altra, credo che diedero la sveglia a tutto il vicinato. La signora era rossa più per la stizza che per la vergogna; io più pallido di spavento che di stizza: ma quella diversione mi rese i colori. Cominciai a gridare che non era nulla e che stava provando alla signora la tracolla della sciabola. La cameriera si buttò addirittura addosso alla padrona minacciandola che se non le pagava i salari le avrebbe cavato gli occhi, e che non era quella la maniera di mantenere le sue promesse che il servizio dell'ufficial francese sarebbesi lasciato tutto a lei. Intanto si udivano da basso gli ultimi miagolamenti del povero gatto sgozzato dalla mia ordinanza colle forbici della padrona che furono poi trovate tutte insanguinate. Anzi bisognerà che gli tiri le orecchie a quello sciocco per questa castroneria! Figurati che parapiglia! La signora, che m'aveva lasciato, voleva tornarmi ad abbracciare, la cameriera mi teneva pel collo, e la portinaia per l'abito; ciascuna voleva la sua parte, ma avevano fatto i conti senza l'oste. Stufo delle loro moine io diedi una tal vociata che restarono tutte e tre quasi istupidite e mi lasciarono libero di movermi. Io infilai la porta, presi il cappello nell'anticamera, ed eccomi qui di volo: ma giuraddio, se avessi sostenuto in carré una carica di cosacchi non sbufferei di più!... Io consolai il giovine colonnello delle sue disgrazie; e lo menai poscia dalla Pisana a ricevere i ringraziamenti dovutigli; ma ebbimo cura di cambiar il gatto in un pollo d'India, e perciò non risaltarono tanto i pericoli corsi dal paladino per conquistarlo. Ad ogni modo, grazie alla furberia della cuoca piemontese il brodo ottenne l'aggradimento della padrona; lo si disse un po' insipido per esser di pollo d'India, ma siccome anche i polli soffrivano per la carestia, non ci badò tanto pel sottile. Sono storielle un po' insulse dopo la grande epopea delle mie imprese di Napoli; ma ad ogni stagione i suoi frutti; e quella reclusione di Genova accennava sul principio di volgere in buffo. Soltanto Lucilio non rimetteva nulla della sua consueta gravità; e succiava seriamente le sue radici di cicoria come le fossero polpette di selvaggina, o salsicciotti di pollo. Un'altra volta il mugnaio colonnello mi venne a trovare meno rosso e giovialone del solito. Io ne dava la colpa al cavallo salato che cominciava a mancare, ma mi rispose d'aver ben altro pel capo e che m'avrebbe condotto in tal luogo dove forse anch'io sarei partito con tutt'altra voglia che di berteggiare. Per verità io non trovava più allettamento a simili improvvisate; ma per quanto ne stringessi Alessandro, egli nulla volle dirmi e rispondeva sempre che avrei veduto all'indomane. Mi venne infatti a prendere il giorno appresso per condurmi allo Spedal militare. Là trovammo il povero Bruto Provedoni che cominciava ad alzarsi allora da una lunga malattia; ma si era alzato con una gamba di legno. Immaginatevi la brutta sorpresa! Anche Alessandro avea ignorato un pezzo la disgrazia dell'amico e non avendone novella da un secolo la credeva forse ancor peggiore; quando cercando per gli spedali d'un suo soldato che non si trovava più, e lo dicevano infermo, avea dato il naso nell'amico. Tuttavia di noi tre lo stesso Bruto era il meno costernato. Egli rideva, cantava e si provava a camminare e a ballare sulla sua gamba di legno cogli attucci più grotteschi del mondo. Diceva soltanto che si pentiva di non aver tardato a perder la gamba fin nel tempo dell'assedio, che allora avrebbe potuto mangiarsela con molto piacere. Mi consolai d'averlo trovato, ché in qualche maniera poteva essergli utile. Infatti tutta la sua convalescenza egli la passò in casa nostra colla Pisana e con Lucilio, e schivò le noie e gli incommodi degli spedali militari. A Genova rividi anche Ugo Foscolo, ufficiale della Legione lombarda, e fu l'ultima volta che stetti con lui sul piede dell'antica dimestichezza. Egli stava già sul tirato come un uomo di genio, si ritraeva dall'amicizia, massime degli uomini, per ottener meglio l'ammirazione; e scriveva odi alle sue amiche con tutto il classicismo d'Anacreonte e d'Orazio. Questo serva a provare che non si era sempre occupati a morire di fame, e che anche il vitto di cicoria né spegne l'estro poetico né attuta affatto il buon umore della gioventù. A lungo andare peraltro l'estro poetico svaporava, e il buon umore andava appassendo. Una fava costò perfino tre soldi, e quattro franchi un'oncia di pane: a non voler mangiare che pane e fave c'era da rovinarsi in una settimana. Io non aveva in tutto me un ventimila lire tra denari sonanti e cedole austriache; ma di queste non era quello il luogo da ottenere il pagamento e così tutto l'aver mio si riduceva a un centinaio di doble. Volendo curare la salute vacillante della Pisana e alimentarla d'altro che di zucchero candito e di sorci ci andava comodamente una dobla al giorno. Da ultimo fui ben fortunato di ricorrere al cavallo salato di Alessandro. Ma dàlli e dàlli, non ne rimasero che le ossa; e allora ci convenne far come tutti; vivere di pesce marcio, di fieno bollito quando si trovava gramigna, e di zuccherini, de' quali era in Genova grande abbondanza, perché formavano un importantissimo ramo di commercio. S'aggiunsero febbri e petecchie per ultimo conforto; ma appunto in casa nostra cominciò a rifiorir la salute, quando si corrompeva di fuori. I zuccherini conferivano alla Pisana; ella racquistò le belle rose delle guance e il suo umorino strano e bisbetico che durante la malattia s'era fatto così buono ed uguale da farmi temere qualche grosso guaio. Allora mi racconsolai, giudicando che nulla v'avea di guasto, e che i visceri erano quelli

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Argomenti: quantità possibile,    sapore gattesco,    povero gatto,    brodo ottenne,    grande epopea

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