Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 245

Testo di pubblico dominio

felici da morire, pure ebbimo le nostre consolazioni. La concordia d'ogni classe di cittadini, la serena pazienza di quell'ottimo popolo veneziano in ogni fatta di disgrazie, la cieca confidenza nel futuro, l'educazione militare che dietro i forti ripari della laguna aveva tempo di assodarsi, tutto dava a sperare che quello era il fine, o come diceva Talleyrand, il principio della fine. L'attività pubblica, occupando le menti d'ogni fatta di persone, impediva l'ozio, migliorando grandemente la moralità del paese, e non ultimo conforto era l'abbassamento dei tristi, i quali, a quel ridestarsi vittorioso della coscienza popolare, s'erano rimpiattati nelle loro tane, come ranocchi nel fango. Il dottor Ormenta era fuggito in terraferma, e morì, come seppi in appresso, per uno spavento fattogli da una scorreria di Corpi franchi. Non gli giovò per nulla lo aver portato nell'infanzia l'abitino di sant'Antonio, ed ebbe di grazia che lo accettassero in camposanto. Augusto Cisterna dimenticato e disprezzato da tutti rimase a Venezia; ma perfino i figliuoli vergognavano di portare il suo nome; ed Enrico, quello scapestrato, riconquistò qualche parte della mia stima col riportare uno sfregio traverso la faccia nella sortita di Mestre. Un giorno ch'io tornava da una visita al general Pepe, il quale sopportava volentieri le mie chiacchiere, la Pisana mi si fece innanzi con cera più grave del solito, dicendo che aveva cose di qualche rilevanza da comunicarmi. Io risposi che parlasse pure, ed ella soggiunse che, siccome io le aveva promesso per marito un giovine di proposito e che valesse più per la sostanza che per l'apparenza, credeva di aver trovato chi facesse all'uopo. — Chi mai? — le chiesi un po' trasecolato perché la furbetta non si staccava mai dal letto di sua madre che allora appena cominciava a guarire. — Enrico Cisterna! — sclamò ella gettandomi le braccia al collo. — Come?... quello... — No, non dite male di lui, padre mio!... dite quel giovine bravo e generoso, quel giovine che ad onta d'una educazione trasandata e d'una vita floscia e pettegola, ha saputo farsi tagliar il viso dalle sciabolate, e tornar una settimana dopo al suo posto come fosse nulla!... Oh io gli voglio bene piucché a me stessa, padre mio!... Adesso sì conosco cosa voglia dire il volersi bene!... Diceva di amarlo per compassione, quando di compassione non aveva certamente bisogno; ma ora che forse la meriterebbe, io l'amo per istima, l'amo per amore. — Sì, tutto va bene, benissimo; ma tua madre... — Mia madre sa tutto da questa mattina; ella unisce le sue preghiere alle mie... In quel momento si spalancò sgangheratamente la porta, ed Enrico stesso che stava in agguato nella stanza vicina mi si precipitò di là, supplicandomi di non volerlo allontanare prima che non avessi pronunciato la sua sentenza di vita o di morte. Egli mi stringeva le gambe, quell'altra furiosetta mi attorcigliava il collo colle mani, chi sospirava chi piangeva... fu un vero colpo da commedia. — Sposatevi, sposatevi nel nome di Dio! — sclamai raccogliendoli ambidue fra le braccia; e mai lagrime più dolci non isgorgarono dagli occhi miei sopra esseri più felici. Allora volli anche sapere se e come il loro amore avesse continuato a mia insaputa e dopo quella licenza formale intimata al giovine da Pisana per ordine nostro. Ma la fanciulla mi confessò arrossendo di aver scritto quel giorno due lettere invece di una, nella seconda delle quali raddolciva d'assai il crudo tenore della prima. — Ah traditorella! — le dissi — e così m'ingannavi!... così quella faccenda delle lettere continuò poi sotto il mio naso infino ad ora. — Oh no, padre mio — rispose la Pisana — non avevamo più bisogno di scriverci. — E perché mo non avevate bisogno di scrivervi? — Perché... perché ci vedevamo quasi ogni sera. — Ogni sera vi vedevate?... Ma se fuori dell'inferriata io ho fatto inchiodare le imposte di quella maledetta finestra?... — Papà mio, scusatemi; ma poiché la mamma s'era addormentata, io scendeva pian piano ad aprirgli la porta della riva... — Ah sciagurati!... ah sfacciata!... in casa lo tiravi!... tiravi l'amante in casa!... Ma se di chiavi di quella porta non ce n'ha che una e l'aveva sempre io, vicino al letto!... — Appunto... papà mio; non andate in collera, ma tutte le sere quella chiave io ve la portava via, e la riponeva poi la mattina quando portava il brodo alla mamma. — Scommetto io che mi giocavi questo bel tiro nel darmi il bacio della buona notte e quello della sveglia! — Oh papà, papà!... siete tanto buono!... perdonateci! — Cosa volete?... Vi perdonerò, ma col patto che nessuno ne sappia nulla; non vorrei che ne cavassero un libretto per qualche opera buffa. Enrico si stava tutto vergognoso, mentre la sfacciatella mi confessava tra supplichevole e burlesca i suoi tradimenti; ma io gli diedi del pugno sotto il mento. — Va' là, va' là, non farmi l'impostore! — gli dissi — e prenditi la tua sposa, giacché te l'hai guadagnata a Mestre. Infatti egli non fu zoppo ad abbracciarla, e andammo a terminar l'allegria nella camera dell'Aquilina. Tre settimane dopo Enrico era mio genero, ma gli imposi il sacrifizio di rimanere in casa nostra, perché non voleva essere burlato e pagarne anche le spese. I miei vecchi amici onorarono tutti il pranzo di nozze, e fu provato anche una volta che lo stomaco non conta gli anni quando la coscienza è tranquilla. Quello, credo, fu il colmo delle nostre gioie. Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli interni sgomenti, le lungherie ubbriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio. Eh! ai vecchi non la si dà ad intendere tanto facilmente! Quell'inverno fra il quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva più alla Francia, non credeva all'Inghilterra, e la rotta di Novara più che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori. Si combatteva omai più per l'onore che per la vittoria; sebbene nessuno lo diceva per non scemar agli altri coraggio. Dopo le pubbliche sciagure cominciarono per noi i lutti privati. Un giorno vennero a raccontarmi che il colonnello Giorgi e il caporal Provedoni, feriti sul ponte da una bomba, erano stati trasportati allo Spedale militare, donde per la gravità della ferita non era possibile traslocarli. Accorsi più morto che vivo; li trovai giacere su due lettucci l'uno accanto all'altro, e parlavano dei loro anni giovanili, delle loro guerre d'una volta, delle comuni speranze come due amici in procinto di addormentarsi. E sì che respiravano a fatica, perché avevano il petto squarciato da due orribili piaghe. — La è curiosa! — bisbigliava Alessandro. — Mi par d'essere nel Brasile! — E a me a Cordovado sul piazzale della Madonna! — rispose Bruto. Era il delirio dell'agonia che li prendeva; un dolcissimo delirio quale la natura non ne concede che alle anime elette per render loro facile e soave il passaggio da questa vita. — Consolatevi! — diss'io trattenendo a stento le lagrime. — Siete fra le braccia d'un amico. — Oh, Carlino! — mormorò Alessandro. — Addio, Carlino! Se vuoi che faccia qualche cosa per te, non hai che a parlare. L'Imperatore del Brasile è mio amico. Bruto mi strinse la mano perché non era affatto fuori di sé; ma indi a poco tornò a svariare anch'esso, e ambidue svelavano in quelle ultime fantasticaggini dell'anima tanta bontà di cuore e tanta altezza di sentimenti, che io piangeva a cald'occhi e mi disperava di non poter trattenere i loro spiriti che si alzavano al cielo. Tornarono in sé un momento per salutarmi, per salutarsi a vicenda, per sorridere e per morire. La Pisana, l'Aquilina ed Enrico, che vennero indi a poco, mi trovarono piangente e genuflesso fra due cadaveri. Il giorno stesso moriva nel campo dell'assedio sotto Mestre il general Partistagno. Aveva, lontani di là poche miglia, numerosi figliuoli de' quali nessuno poté consolare

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