Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 169

Testo di pubblico dominio

qui stasera a prima giunta trovandovi abbracciati insieme quei sospetti finirono di travolgermi la ragione!... Mio Dio! quale sventura! dico sventura, perché non ne avreste avuto colpa, e tuttavia sono fatalità che come i delitti più tremendi lasciano nell'anima eterni rimorsi... Mi capite ora, Carlo!... Io era pazzo! Infatti io rabbrividii figurandomi quanto egli avrebbe dovuto soffrire. — Pure non ci svelaste nulla! — io replicai. — Oh fu un momento, fu un momento che tutto fui per isvelare! così credeva che mi sarei vendicato! — E vi tratteneste? — Per compassione, Carlo, per giustizia mi trattenni! Se il male era già avvenuto, perché punir voi innocenti? Meglio era ch'io partissi recando altrove la mia disperazione la mia gelosia, e lasciando a voi la felicità piuttostoché cambiarla in un rimorso irreparabile!... — Oh Spiro! quanto eravate generoso! — io sclamai. — Un'anima come la vostra più che l'amore e la gratitudine comanda l'ammirazione!... L'Aglaura piangeva a cald'occhi stringendomi il braccio con una mano e guardando forse Spiro tra le dita dell'altra. — Ditemi ora dove foste per tutte queste ore — io richiesi volgendomi a Spiro. — Prima di tutto fui all'aperto, all'aria libera a respirare, a chieder ispirazione da Dio; indi come il cuore mi consigliava tornai in questa casa, interrogai i padroni, i portinai... Oh ci volle poco, Carlo, ci volle poco perché mi ricredessi!... Quel vapore di disperazione s'era disciolto; già mi pareva impossibile che Dio permettesse colle sembianze dell'innocenza una tanta nefandità. Quando poi udii la vita che voi menavate qui, proprio come fratello e sorella, semplice modesta riservata! quando udii i delicati riguardi da voi tenuti sempre verso l'Aglaura, allora la certezza della vostra innocenza mi slargò il cuore, allora compiansi maledii la mia stolta precipitazione e giurai che non avrei lasciato passare una notte senza togliervi dal cuore il coltello ch'io vi aveva confitto!... Deh per carità, Carlo!... Aglaura, se mai col mio grande affetto meritai nulla da voi, compatitemi, perdonatemi, serbatemi se non altro un cantuccio nella vostra memoria... e se la mia presenza vi richiama qualche crucciosa rimembranza... allora... Io mi volsi tacitamente all'Aglaura, ché per me non mi sentiva da tanto di rimeritare la bella magnanimità di Spiro. Ella mi comprese o comprese forse il proprio cuore: onde prese la mano del giovine, e mettendola nella mia, così com'eravamo uniti tutti e tre in una sola stretta, soggiunse: — Basta, Spiro! Ecco la nostra risposta! Formeremo una sola famiglia!... Il resto della notte fu goduto in amichevoli e lieti conversari e nell'esaminare le carte recate da Spiro e lasciate dal padre suo a Venezia, dalle quali era comprovata evidentemente la nascita dell'Aglaura nell'ospitale di Venezia e dalla povera mia madre. Il nome del padre non appariva; e come ben potete figurarvi, nessuno si sognò di notare questa spiacevolissima mancanza. Tirammo innanzi come se appunto il padre fosse una comparsa superflua nel mistero della generazione; io sapeva abbastanza i non pochi disordini della buon'anima di mia madre nell'ultimo stadio di sua vita, li compativa anche, ma né la pietà filiale né il rispetto di me medesimo e del nome paterno mi consigliavano di metterli in luce. Accettai dunque l'Aglaura per sorella di tutto cuore, ne ringraziai il cielo come d'un insperato e prezioso presente, e m'adoperai a tutt'uomo perché il presente fosse reso più gradito a mille tanti col cambiare in parentela l'amicizia che mi univa a Spiro. Fu un po' malagevole per l'Aglaura questo passaggio dall'idee di morte di odio di vendetta a quelle di pace d'amore e di nozze; ma col mio aiuto e con quello di Spiro le superò. D'altronde ella vedeva che così tutto si accomodava e le donne per far tutti contenti sono anche capaci di maritarsi, quando peraltro con questi ripieghi accontentino prima di tutti se stesse. A quei tempi c'erano poche formalità per un matrimonio. Interpretando la tacita volontà di Spiro io m'ingegnai tanto e con sì felice esito che, prima della partenza della legione, ebbi la consolazione di vederlo sposo dell'Aglaura. Partimmo poi da Milano di conserva perché il signor Ettore mi concesse di buona voglia il permesso di accompagnarli fino a Mantova; di colà io l'avrei raggiunto a Firenze per la via di Ferrara. Quella breve meteora di contentezza famigliare m'era necessaria per rompere il buio del mio orizzonte che cominciava a minacciar troppo. Benché anche di mio padre Spiro mi avea recato qualche notizia se non diretta certo credibilissima. Lo dicevano giunto felicemente a Costantinopoli e inteso piucchemai all'opera gravissima che lo preoccupava, nella quale peraltro improvvisi ostacoli lo avevano ritardato. Stava bene, e avrebbe mandato sue nuove o sarebbe tornato ad impresa fornita. La partenza per la Grecia del vecchio Apostulos poteva addentellarsi alle macchinazioni di mio padre in Turchia, ma capii che Spiro o non ne sapeva o non potea dirne di più, e cambiai discorso raccomandandogli soltanto di farmi giungere al più presto e ovunque mi trovassi qualunque novella di mio padre fosse per arrivare. L'Aglaura, che avea preso il partito di aver comune con me il padre giacché aveva la madre, mi rispose in nome suo che sarebbe fatto, e che ella cercherebbe ogni modo d'averne contezza sovente, poiché anche a lei stava a cuore un sì buon papà. Ci separammo a Mantova proprio il giorno che quella città aveva ottenuto il permesso definitivo di aggregarsi alla Cisalpina; la mestizia dei commiati nostri andava perduta nella gioia nella speranza universale. Io aveva ritrovato una sorella, mi pareva di esser sulla buona via per trovare una patria; ben mi stava di vivere s'anco avessi perduto per sempre l'amore. Intanto ci demmo la posta a Venezia, tutti repubblicani, liberi, contenti! Essi scomparvero in un calesse sulla via di Verona, io ripresi a piedi la strada della città, fuor della quale li aveva accompagnati un buon miglio. Quell'ammasso di case di torri di cupole in mezzo all'acqua del Mincio mi fece pensare a Venezia: cosa volete? Invece di sorridere, sospirai; il passato poteva sopra di me assai più del futuro, o lo stesso futuro mi traspariva qual doveva essere, di gran lunga diverso dalla creatura prediletta dell'immaginazione. Cionullameno quella festa d'una città italiana, già signora di sé, con corte, con leggi, con privilegi proprii, la quale si metteva uguale colle altre per esser libera o serva, felice od infelice insieme alle altre, mi saldò nel cuore un bel germoglio di speranze. Sono di quelle speranze che son sicure di crescere, e che morti noi, crescono nel petto dei figliuoli e dei nipoti finché tutte le loro parti abbiano avuto effetto di realtà. Anche i Gonzaghi diventavano omai una vecchia memoria storica. Parce sepultis, purché non facciano la burla di Lazzaro; ma costoro non ce la faranno mai; ove trovar Marta che preghi per essi?... In fin dei conti hanno stipendiato Mantegna, hanno fatto dipingere a Giulio Romano la volta dei Giganti, hanno liberato il Tasso dallo spedale, hanno vinto o perduto nella persona del condottiero la battaglia di Fornuovo, vi par poco? Era tempo che si mettessero anch'essi a giacere a canto dei Visconti, degli Sforza, dei Torriani, dei Bentivoglio, dei Doria, dei Colonna, dei Varano e di tutti gli altri. Fortunatissimi che furono gli ultimi; ma temo che abbiano dormito un bel pezzo ritti come i fanciulli ostinati: e chi dovea vegliare dopo essi pestava inutilmente i piedi. Comunque la sia io partii da Mantova di miglior umore che non mi sarei immaginato. La mia borsa affatto smilza (figuratevi se i mille ducati avean poco sofferto della lunga dimora mia e dell'Aglaura a Milano), la mia borsa, e insieme una certa modestia soldatesca non mi permisero che un biroccino fino Bologna; uno di quei veicoli che danno al paziente alcuna delle illusioni di chi siede in carrozza, con

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Argomenti: grande affetto,    pietà filiale,    nome paterno,    felice esito,    breve meteora

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