Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 253

Testo di pubblico dominio

susseguente; bensì avea fatto munire intanto con fuciliere e cannoni le nostre caserme, di modo che quel fortino improvvisato difendesse anche gli approcci della nostra residenza. Ma la cosa si contenne nei limiti delle avvisaglie fino al gennaio passato, quando essendo scoppiato un tumulto più pericoloso intorno alla miniera dell'ovest, io dovetti accorrere in fretta colà con gran parte della guarnigione a dar un esempio. Quella fazione mi tenne lontano più ch'io non credessi; i selvaggi combattevano con un'astuzia particolare, e soltanto dopo tre settimane giungemmo a ricacciarli di là dal fiume e a bruciar loro le barche. Sicuri che non ci darebbero noia per un pezzo ci rivolsimo verso Rio Ferreires, quando a mezzo cammino si trovò un corriere che ci dava molta fretta per esser la città minacciata dagli Indiani. Ad onta che i soldati fossero stanchissimi, sforzammo disperatamente le marce perché molti aveano lasciato nelle caserme le loro mogli e si viveva in grandissima ansietà. Io temeva assai del dottor Ciampoli, il quale per essere molto fiero e risoluto poteva arrischiare sé ed i suoi a qualche tristo cimento. La prima cosa che mi colpì gli occhi quando giunsimo in vista di Rio Ferreires, fu la Sopraintendenza tutta quanta in fiamme. Il furore, la rabbia ci raddoppiarono le forze e per tutte quelle cinque miglia che restavano fu una corsa sfrenata. Gli Indiani, in fatto, avevano assaltato di nottetempo le caserme, inchiodato i cannoni, e scannato per sorpresa gran parte degli uomini, facendo prigioniere le donne. I pochi superstiti si erano rifugiati alla residenza; ma colà appunto si era rovesciata proprio nel momento del nostro ritorno la rabbia dei selvaggi. Gridavano di voler uccidere i capi bianchi ch'erano venuti a spodestarli della pianura e della riva del Gran Fiume; e lanciavano contro le mura frecce e macigni. Il dottore coi suoi pochi soldati si difendeva gagliardamente, e dava tempo ai coloni del paese di armarsi e di correre in aiuto; fors'anco noi potevamo capitar a tempo e tutto era salvo. Ma a quelle fiere rabbiose capitò in mente il ripiego dell'incendio; grandi ammassi di canne delle vicine fattorie furono cacciati intorno alla Sopraintendenza, e per opposizione che facessero i rinchiusi, in breve un immenso vortice di fuoco invase i fabbricati. Allora furono veduti prodigi di valore e di disperazione; donne che si precipitavano nelle fiamme, uomini che si gettavano dalle finestre e usciti semivivi dall'incendio si facevano strada col pugnale traverso i selvaggi, schiavi e schiave che facevano schermo del proprio petto ai padroni, soldati che si piantavano le spade nel cuore piuttostoché correre il pericolo di esser arrostiti vivi. Il dottor Ciampoli uscì dalla porta laterale dinanzi alla quale le fiamme erano meno dense; aveva intorno una scorta di sei uomini disperati e fedeli, dietro il Fabietto che con coraggio maggiore dell'età sua si trascinava per mano e quasi portava la Gemma; egli procedeva innanzi colla spada in una mano e il pugnale nell'altra. Sperava aprirsi un varco fra i nemici, ma usciti tutti a salvamento dall'incendio, tosto fu loro addosso una frotta tumultuosa di pelli–rosse. Parevano demonii guizzanti a tafferuglio nelle fiamme dell'inferno, e noi scendendo dal monte lontano un miglio appena, ne vedevamo allora le sinistre apparizioni. Il dottore cadde in ginocchio colpito da una freccia, ed ebbe il coraggio di volgersi ad attirare a sé il garzoncello che stringeva la Gemma fra le braccia, e continuava a difender sé e loro roteando la spada. Ma la ferita zampillava sangue come una fontana, e cadde riverso mentre cresceva intorno la rabbia degli assalitori. Allora il Fabietto, fanciullo miracoloso, brandì la spada del padre, e abbandonando la sorella svenuta sul cadaver di lui, sostenne per qualche minuto una battaglia terribile e senza speranza. Oh perché il corriere non ci avea incontrati un'ora prima!... Il fanciullo, colpito da molte frecce, stramazzò mormorando il nome di Maria, e i selvaggi si precipitarono sopra quei corpi benedetti per adornare il loro mostruoso trionfo; ma in quella il vecchio prete portoghese che avea saputo dell'eccidio della Sopraintendenza, accorse in camice e stola col crocefisso in mano. L'aspetto di quell'uomo disarmato che parlava loro di pace nel linguaggio nativo, e che si esponeva senza paura ai loro strazii per salvar i fratelli, arrestò un momento i selvaggi. Intanto ci si dié tempo di giungere. Quello ch'io vidi, quello che soffersi e operai nel resto di quella notte, lo sa Iddio; io non me ne ricordo più. Al mattino trecento cadaveri indiani s'ammucchiavano qua e là sullo sterrato dei forti; ma il povero dottore, suo figlio e duecento dei nostri, tra soldati e coloni, ci avean lasciato la vita. La Gemma non era tornata in sé che per cadere nella pazzia e d'allora in poi il suo delirio durò quasi due mesi. Le caserme rovinate, gli stabilimenti incesi, le tribù indiane che s'ingrossavano intorno sempre più mentre noi eravamo assottigliati di numero e di forze, ci persuasero di ritirarci a Villabella. Qui la guarnigione della Gemma sembra quasi assicurata; e mi riprometto entro l'estate di giungere a Buenos Aires, ove essendosi stabiliti Martelli, io la consegnerò a loro od anche dietro loro consiglio la condurrò io stesso in Europa. Dio secondi le mie buone intenzioni!... BUENOS AIRES, ottobre 1852 Tre mesi di viaggio, ma sempre vago, pittoresco, in paesi di bellezze quasi favolose. La distrazione guarì affatto la Gemma; ella mi sorrideva quasi per ringraziarmi delle molte brighe ch'io mi assumeva per lei. Giunti a Buenos Aires i Martelli n'erano partiti per una città dell'interno a stabilirvi i rudimenti d'una colonia; ma un capitano amicissimo dell'ingegnere, che salpava per Marsiglia, avrebbe fatto il piacere di condurre la Gemma a Genova presso una sua zia; egli aveva moglie a bordo, e il partito era per ogni verso convenientissimo. Quanto a me voleva tornare a Rio Janeiro per prendere di là la mia rivincita su quegli Indiani maledetti. Senonché, quand'io scopersi queste mie idee alla Gemma, ella chinò il mento sul petto e due fiumi di lagrime le sgorgarono dagli occhi. — Cosa avete? — le chiesi — forse vi dispiace lasciar l'America? — Oh tanto! — mi rispose ella singhiozzando e guardandomi con occhi pieni di preghiera. Il resultato si fu che ci sposammo quattro settimane dopo e si pensò a partire in compagnia per l'Europa; allora non le dispiacque più abbandonar l'America, e quanto a me rinunciai per amor suo alla vendetta sugli Indiani. Oh qual creatura adorabile è la Gemma! Dio mi dia bene, ma da due mesi che siamo marito e moglie non ho pensato ad altro che ad amarla. Ci fermammo qui, sperando di salutare i Martelli ed anche un Partistagno che ci si dice esser con loro; ma siccome pare che tarderanno, penso d'intraprendere una gita nell'interno per salutarli. Intanto fui utile al governo col disegnare i piani d'una nuova colonia sulla spiaggia oltre il Rio, la quale sarà composta tutta d'Italiani, e pel luogo più opportuno riescirà certo assai meglio dell'altra, alla quale invano attendono da un anno i Martelli. Anche vorrei abboccarmi con loro prima di partire per dar loro qualche ragguaglio in proposito; e soltanto mi spiace che essendosi sollevate le provincie del Mezzogiorno mi toccherà allungare d'assai il viaggio per trovarli. SALADILLA, febbraio 1855 Son prigioniero da ventotto mesi nelle mani di questi insorgenti che mi trascinano dietro al loro campo come un misero schiavo. Ho due bambini, figliuoli della schiavitù e della sventura; la loro povera madre mi accompagna sempre, e sconta amaramente l'audacia di aver voluto unire il suo destino al mio. Pur troppo, dopo aver lasciato il padre e il fratello sopra questa terra vorace di America, ci lascerà anche il marito!... La febbre mi consuma e domani forse sarò cadavere. O padre, o madre mia! o miei dolci fratelli, quanto sarebbe lieto il mio

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Argomenti: vecchio prete,    monte lontano,    mezzo cammino,    immenso vortice,    pugnale traverso

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