Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 238

Testo di pubblico dominio

fattosi dichiarare ogni cosa pel minuto, rimasero d'accordo che si sarebbero sparse per tutta Italia quattromila schede di associazione con quattro parole d'invito contenenti i sommi capi dell'opera, e che si sarebbero stampate mille copie del primo fascicolo in ottavo grande. Il Conte tornò a casa che non toccava coi piedi il selciato; e le tre settimane che impiegò a correre dalla casa alla stamperia, rivedendo bozze, emendando errori, cambiando vocaboli e aggiungendo postille furono per lui il tempo più felice della vita, quello che sarebbe stato il primo amore ad un giovinetto qualunque. Ma lo stampatore non partecipava gran fatto di questo eccesso di giubilo; le schede non tornavano colle firme desiderate; e appena era se in Venezia e nelle città vicine se n'erano raccolte un paio di dozzine. Queste poi capitavano loro per mezzo dei commessi librari e si sa quanto stenti il denaro a rifluire per questi incerti canali. Peraltro il Conte era sicuro di veder stampato entro un mese il suo primo fascicolo e dormiva sulle rose. Ebbe sì a litigare colla censura per qualche frase per qualche periodo, ma erano correzioni che non intaccavano menomamente l'opera d'importanza, e le concesse volentieri. Così finalmente venne alla luce il famoso frontespizio coi quattro capitoli che gli tenevano dietro, e il conte Rinaldo ebbe la straordinaria consolazione di poter contemplare i cartoni della sua opera nelle vetrine dei librai. A questa consolazione tenne dietro l'altra non meno vitale di udirne strombettar il titolo sui giornali, e di vederne la critica tirata giù a campane doppie in qualche appendice. Fu il primo un giornale di Milano a lodare l'intento e la profonda erudizione del libro, nonché il grande valor pratico che poteva acquistare anco per l'odierno commercio, ove concorressero circostanze tali che lo avviassero a ritentare gli scali d'una volta. Si parlava in quel cenno critico delle Indie, della China, delle Molucche, dell'Inghilterra, della Russia, dell'oppio, del pepe e della paglia di riso, di Mehemet Alì, dell'Impero birmano e del taglio dell'istmo di Suez, di tutto insomma fuorché del lavoro di Rinaldo e della mercatura e degli istituti commerciali veneziani durante il Medio Evo. Tuttavia Rinaldo se ne accontentò perché infatti l'intento patriottico e la critica vasta e profonda erano designati come i pregi principali; il che era vero e l'autore sel sapeva, come seppe buon grado al giornalista di aver letto e interpretato a dovere l'opera sua. Un diario toscano copiò nella sostanza il giudizio del giornale milanese aggiungendo qualche cosa del suo, e dando a divedere con queste aggiunte di aver al più malamente sfogliazzato quel libro. Ma dopo cominciarono a comparire qua e là cento critiche, cento giudizi gli uni più strambi degli altri, ricalcati servilmente e variati a piacere da quelle prime relazioni. Si accorgeva alle prime che gli scrittori conoscevano il libro appena nel titolo, e non aveano forse neppur pensato due volte a questo, perché un dotto pubblicista di Torino ebbe a raccomandare lo studio del Conte di Fratta come un ottimo manuale per quei commercianti che vogliono aiutare la pratica dei loro negozi colle speculazioni della moderna economia. Leggendo quest'ultimo giudizio il povero autore si stropicciò gli occhi, e credette aver straveduto o che almeno non parlassero di lui e della sua opera. Ma poi ci tornò sopra e se ne persuase pur troppo. — Razza di somari! — mormorò egli fra i denti. — Pazienza non comperarlo, pazienza non leggerlo! Ma non intendere nemmeno il titolo!... Giudicarlo a rompicollo prima di osservarne il frontespizio!... Questa poi trascende ogni misura, e dico il vero che vorrei piuttosto essere lacerato che lodato da simile genia di aristarchi. Era vissuto fino allora nelle biblioteche il conte Rinaldo e non sapeva che quelli non erano tempi da perdersi in letture. E che si lodava e si biasimava senza leggere, appunto perché si apprezzava più lo spirito e l'intento che il valore scientifico e la forma delle opere. Ognuno diceva al vicino: “leggi quel libro che a primo assaggio mi parve buono!”. Ma le parole passavano e il libro restava in bottega. Piuttosto si correva a divorare le recentissime di qualche giornale. Io non voglio dire che non restassero studiosi di polso che avean tempo a tutto; ma la gioventù, la gran consumatrice dei libri nuovi, era troppo occupata. Volendo tener dietro ai chiassi ai trastulli agli amorazzi nei quali era cresciuta e alle nuove passioni che fermentavano nelle combriccole, non era bastevole un'anima per individuo. Allora appunto era morto Gregorio XVI, al quale succedette nella sedia pontificale Giovanni Mastai Ferretti sotto il nome di Pio IX. Chi al leggere questo nome non lo sente rimormorare sulle labbra, come una nota melodia che ci ronza negli orecchi lungo tempo dopo averla ascoltata?... Pio IX era anzitutto sacerdote e papa e lo si volle trasformare in un Giulio II pontefice e soldato; fu come quando si travede in una nuvola un simbolo una figura che chi l'ha in capo la ravvisa, ma invano si cercherebbe farla vedere agli altri. Allora il nuovo Papa o non capì o non volle capire il significato di quegli applausi che lo portavano a cielo, e tacendo diede ragione a chi sperava da lui più forse che non era disposto a concedere. Non so se l'entusiasmo fosse di moda o la moda generasse l'entusiasmo; so che entusiasmo e moda pervennero dal bisogno universalmente sentito di ricoverare le proprie speranze dietro un vessillo santo ed inviolabile: non v'avea né congiura, né impostura, era saviezza d'istinto. Questi avvenimenti che rompevano la lunga sonnolenza d'Italia non secondarono per nulla l'impresa tipografica del conte Rinaldo; certo anche in tempi soliti non avrebbe guadagnato dal primo fascicolo di che aiutare almeno per metà la stampa del secondo, ma allora poi non ci cavò uno scudo che l'è uno scudo. E quello che è più curioso, toccò anche a lui dimenticarsi del proprio libro per correre cogli altri in piazza a gridare: Viva Pio IX! Sua sorella era fra le meglio invasate pel nuovo Pontefice; ne parlava come d'un profeta, e tutta la sua conversazione se n'era scandolezzata perché mai più s'immaginavano che la vecchia bigotta, la badessa emerita di Santa Teresa plaudisse di gran cuore ad una papa che tirava più al politico che al sacerdotale; almeno così credevano allora. Ma ignoravano forse il perché la Clara si era fatta bigotta e monaca, e a quali condizioni s'era obbligata verso Domeneddio all'osservanza dei voti. Io non lo sapeva ancora di sicuro; ma da qualche mezza parola credeva già di poterlo indovinare. Intanto in mezzo a questi torbidi il danaro si faceva più raro che mai; e fu allora che il conte Rinaldo mandò un ordine urgente al suo castaldo di Fratta che gli si spedisse qualche soldo ad ogni costo; e il povero contadino si tolse d'impiccio vendendo i materiali che rimanevano del castello e anticipandone al padrone il prezzo. Il Conte con quella sommetta voleva aiutare la fondazione d'un giornale patriottico in non so qual città di terraferma; e così anche allora il danaro gli scappò dalle dita, e Clara rimase senza caffè, ed egli con poco pane: ma l'una pregando, l'altro leggendo e fantasticando si difendevano valorosamente contro la fame. Qualche volta io ebbi la cristiana previdenza d'invitarlo a pranzo, ma era tanto svagato che benché sovente avesse nello stomaco l'appetito vecchio d'un paio di giorni, si smemorava dell'ora del pranzo e non veniva che alle frutta. Peraltro rimesse che furono in movimento le mascelle mostravano assai buona memoria del digiuno e una discreta previdenza di non volerlo patire per un buon pezzettino di futuro. Questo era il poco bene che poteva operare a vantaggio de' miei cugini, dei fratelli della Pisana; del resto non aveva il coraggio di esibirmi conoscendo la loro permalosa delicatezza; ed anche qualche libbra di caffè di cui l'Aquilina regalava la

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Argomenti: lungo tempo,    quattro parole,    famoso frontespizio,    cenno critico,    diario toscano

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