Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 234

Testo di pubblico dominio

quali la moralità cristiana concorda colla naturale. Se voi mi proverete che diventando usuraio, spergiuro, venale, assassino, io sarei stato più utile alla società, consentirò allora con voi che sia perfettamente inutile dare un appoggio filosofico ed assoluto anche ai precetti morali della religione. Senzaché colla lettura del testo si può schermeggiare e stabilire contr'esso la battaglia ordinata della casuistica; ma coi sentimenti, eh, maestri miei non v'ha scherma o casuistica che tenga! Se si opera a ritroso ne siam tosto puniti dai rimorsi che son forse meno formidabili ma più presenti dell'inferno. Io non credo d'aver mai avuto il coraggio di schiccherare all'Aquilina una così lunga predica, ché allora non dubito che l'avrei persuasa; anzi colgo l'occasione di dichiararvi che per quanto parolaio e quaresimalista possa sembrarvi nel racconto della mia vita, all'atto pratico poi sono sempre stato assai parco di parole, e tre persone che avessi dinanzi più del solito bastavano per impegolarmi lo scilinguagnolo. Pure qualche volta bel bello venni con mia moglie su quel discorso; e battuto da una parte ci tornai dall'altra, sempre coll'ugual risultato di buscarmi nelle orecchie una solenne gridata. La lasciai dunque in balìa di disporre ogni cosa a suo modo, anche perché tra padre e madre in verità era imbrogliato a decidere quale avesse maggiori diritti dell'altro. A far pesare la bilancia dal suo lato contribuì anche non poco la circostanza del cholera, il quale, penetrato allora per la prima volta in Italia collo spavento che accompagna le malattie contagiose ed insolite, mise tutta Venezia in grandissima costernazione. Il nostro Giulio fu colpito da quel morbo terribile, e la costanza e il coraggio col quale sua madre lo assisté le diedero quasi un'altra volta i diritti di madre. Io dovetti metter la piva nel sacco coi miei; e se serbai qualche pretesa fu sulla Pisana, la quale più del fanciullo abbisognava d'un indirizzo certo e morale per essere a tre doppi di lui accorta e maligna. Sembrava che col nome ella avesse ereditato qualche cosa del temperamento della mia Pisana, e quando prima di improvvisare una filastrocca di bugie, con un leggiadro movimento del capo si liberava la fronte dalle diffuse anella dei bei capelli castani che la inondavano, la mia mente correva tosto alla piccola maga di Fratta; e così io mi lasciava corbellare colla massima dabbenaggine. Senonché la mia figliuolina non aveva la spensieratezza e la petulanza della Pisana; anzi sapeva calcolar molto bene i fatti suoi, e piegarsi e torcer il collo oggi per drizzar il capo e impennarsi meglio domani. Io la teneva d'occhio e vedeva crescere in lei ogni giorno quello studio di piacere che è la fortuna e la rovina delle donne. Cercava con bella maniera di indirizzarla convenevolmente, di renderle pregevole il suffragio dei buoni e di farle avere in poco conto l'ammirazione dei tristi, dimostrandole come bontà e tristizia non si conoscano dalle apparenze più o meno splendide ma dalle qualità delle azioni; ma mi accorgeva di far poco frutto. Le avevano troppo inculcato che chi comanda ha ragione di comandare, e non può desiderare altro che il meglio di chi ubbidisce, perch'ella credesse e potesse amare la virtù povera dispregiata ed oppressa; per lei merito, virtù, onori, ricchezza, potenza erano una sola cosa, e la sua capricciosa testolina s'empiva di fantasmi e di corbellerie. Correva dietro al lume come la farfalla. Ma le ali, poverina, le ali?... Come farai, leggiera farfalletta, a spiccare il volo quando il fuoco della candela t'avrà incenerito le ali?... Quest'era la mia paura; che qualche triste disinganno le togliesse ogni poesia dall'anima, e che restasse come quei sciagurati che si credono esseri spregiudicati, positivi, perfetti, e non sono altro che mostruosi bastardumi dell'umana progenie, corpi senza spirito destinati a corrompere per alcuni anni una certa quantità d'aria pura e a popolare di vermi la cavità d'un sepolcro. Io lottava pertinacemente, come le mie occupazioni me lo consentivano, contro i dubbiosi istinti di quell'indole femminile; ma non altro faceva che arrestar il male senza poterlo togliere, anche perché le parole dell'Aquilina contrastavano alle mie, e le compagnie ch'essa le faceva frequentare le offrivano esempi totalmente opposti a quelli che si affacevano per confermare le mie belle teorie. Il cholera se non altro fu benemerito di spazzare il mondo da molte persone che non si sapeva il perché ci fossero capitate. Uno dei primi ad andarsene fu Agostino Frumier che lasciò numerosa figliolanza, e fu accoratissimo di scender sotterra senza la chiave di ciambellano così lungamente ambita. Suo fratello ci perdette nella moria la vecchia Correggitrice che morì credo più di paura che di vero male; ed egli allora tornò così nuovo al mondo che credo si maravigliasse di non trovarsi in capo la perrucca e di non veder il Doge e le cappe magne degli Eccellentissimi Procuratori. Dicevano per Venezia: — Ecco il cavalier Alfonso Frumier che è uscito or ora di collegio. — Aveva all'incirca sessantacinque anni, e la signora Correggitrice passavi settanta quando s'era decisa a morire. Per trovare una costanza simile a questa bisognerebbe risalire ai primordi del genere umano quando non c'era che un uomo ed una donna sola. In quel contagio credo che morisse anche la Doretta che dopo una vita piena di vitupero e di pellegrinaggi era tornata in Venezia ad infamare la propria vecchiaia. Certo seppi dalla signora Clara ch'ella mancò nell'estate di quell'anno nell'Ospitale. Io l'avea incontrata parecchie volte, ma finto di non conoscerla perché la sua sozza figura mi moveva proprio ribrezzo; e mi sapeva di sacrilegio l'unire la memoria di Leopardo a quella svergognata creatura. Peraltro anche la sua fine contribuì a persuadermi che una suprema giustizia domina le vicende di questo mondo; e che vi sono sì molte e dolorose eccezioni, ma in generale ne resta confermata la regola che il male raccoglie male. Durante la giovinezza, quando l'animo bollente ed impetuoso non ha tempo di considerare le pienezze delle cose, ma s'arresta più facilmente ai particolari, è possibile il prender abbaglio. Di mano in mano poi che il giudizio si raffredda e che la memoria fa maggior tesoro di fatti e di osservazioni, cresce la confidenza nella ragione collettiva che regola l'umanità, e s'intravvede la sua salita verso migliori stazioni. Così non accorgiamo il pendio d'un torrente nello spazio di pochi piedi ma bensì a specularlo da un'altura in buona parte del suo corso. Ci eravamo appena riavuti dallo sgomento di quella pestilenza, quando una sera, mi pare a mezzo novembre, mi fu annunciata la visita del dottor Vianello. Io era sempre stato in qualche corrispondenza con Lucilio, ma dopo il trent'uno quand'egli pure era venuto in Italia per ripartirne tantosto, le nostre lettere s'erano sempre fatte più rare. Allora poi non ne aveva notizia da più d'un anno. Lo trovai curvo, pallido e bianco affatto di quei pochi capelli rimastigli; ma negli occhi era sempre lui; l'anima forte e integerrima scaldava ancora le sue parole, quando alzava un gesto s'indovinava la vigoria dello spirito che covava in quel corpicciuolo asciutto e sparuto. — T'ho detto che verrò a morire fra voi! — mi disse egli. — Or bene, vengo a mantenere la mia parola. Ho settantadue anni, ma sarebbero nulla senza un noioso mal di petto regalatomi dal clima di Londra. Abbiamo un bel difenderci noi, figliuoli del sole; le nebbie ci rovinano. — Spero bene che scherzi — gli risposi io — e che come hai guarito me nella vista, così guarirai te nel petto. — Ti ripeto che vengo a mantenere la mia parola. Del resto noi ci conosciamo, e non si abbisognano né scambievoli cerimonie, né bugie. Sappiamo cosa si può sperare della vita, e qual bene o qual male è la morte. Se io ti recitassi ora la commedia con questa mia indifferenza, avresti ragione di

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Argomenti: bel bello,    appoggio filosofico,    indirizzo certo,    leggiadro movimento,    triste disinganno

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