Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 10

Testo di pubblico dominio

raziocinante abbiamo a scusa la completa mancanza di tradizioni militari. Ma di ciò basta in proposito ai giurisdizionali di Fratta; e quanto al loro tremore nel cospetto delle autorità non è nemmen d'uopo soggiungere che non tanto era effetto di pusillanimità, quanto della secolare reverenza e del timore che dimostra sempre la gente illetterata per chi ne sa più di lei. Un cancelliere che con tre sgorbi di penna poteva a suo capriccio gettar fuori di casa in compagnia della miseria e della fame due tre o venti famiglie, doveva sembrare a quei poveretti qualche cosa di simile ad uno stregone. Ora che le faccende in generale camminano sopra norme più sicure, anche gli ignoranti guardano la giustizia con miglior occhio, e non ne prendono sgomento come della sorella della forca o dell'oppignorazione. In compagnia delle persone di casa che ho nominato fin qui, il piovano di Teglio, mio maestro di dottrina e di calligrafia, usava passar qualche ora sotto la cappa del gran camino, rimpetto al signor Conte, facendogli delle gran riverenze ogni volta ch'esso gli volgeva la parola. L'era un bel pretone di montagna poco amico degli abatini d'allora e bucherato dal vaiuolo a segno che le sue guancie mi fecero sempre venir in mente il formaggio stracchino, quando è ben grasso e pieno di occhi, come dicono i dilettanti. Camminava molto adagio; parlava più adagio ancora, non trascurando mai di dividere ogni sua parlata in tre punti; e questa abitudine gli si era ficcata tanto ben addentro nelle ossa che mangiando tossendo o sospirando pareva sempre che mangiasse tossisse o sospirasse in tre punti. Tutti i suoi movimenti apparivano così ponderati, che se gli accadde mai di commettere qualche peccato, ad onta della sua vita generalmente tranquilla ed evangelica, dubito che il Signore siasi indotto a perdonarglielo. Perfino i suoi sguardi non si movevano senza qualche gran motivo; e pareva che stentatamente s'inducessero a traforare due siepaie di sopraccigli che proteggevano i loro agguati. Era desso l'ideale della premeditazione, sceso ad incarnarsi nel grembo d'una montagnola di Clausedo; tonsurato dal vescovo di Porto, e vestito del più lungo giubbone di peluzzo che abbia mai combattuto coi polpacci d'un prete. Egli tremolava un pochino nelle mani, difetto che nuoceva alquanto alla sua qualità di calligrafo, ma che non lo impediva dall'appoggiarsi saldamente alla sua canna d'India col pomo di vero corno di bue. Circa le sue facoltà morali, per esser nato nel Settecento lo si potea vantare per un modello d'indipendenza ecclesiastica; giacché le riverenze profondissime che faceva al Conte non lo impedivano dal condursi a proprio talento nella cura d'anime; e forse anco, esse equivalevano a questo modo di dire: “Illustrissimo signor Conte, io la venero e la rispetto; ma del resto a casa mia il padrone sono io”. Il cappellano di Fratta invece era un salterello allibito e pusillanime che avrebbe dato la benedizione col mescolo di cucina, nulla nulla che al Conte fosse saltato questo grillo. Non per poca religione, no; ma il poveruomo si smarriva tanto al cospetto della signoria, che non sapeva proprio più cosa si facesse. Per questo quando gli bisognava stare in castello pareva sempre sulle spine; e credo che se ora che è morto gli si volesse dare un vero purgatorio, non occorrerebbe altro che rimetterlo a vivere in corpo d'un maestro di casa. Nessuno più di lui era capace di durare seduto le ore colle ore senza alzar gli occhi o batter becco quando altri lo osservava; ma del pari possedeva un'arte miracolosa di sparir via senza esser veduto, anche in una compagnia di dieci persone. Soltanto quand'egli veniva in coda al piovano di Teglio qualche barlume di dignità sinodale gli rischiarava la fisonomia; ma ben si accorgeva che era uno sforzo per tener dietro al superiore, e in quelle volte era tanto occupato di tener a mente la sua parte che non ascoltava né vedeva più, ed era capace di metter in bocca bragie per nocciuole, come il fattore per iscomessa ne aveva fatto l'esperimento. Il signor Ambrogio Traversini, fattore e perito del castello, era il martello del povero Cappellano. E tra loro due correvano sempre quelle burle quelle farsette, che erano tanto in moda al tempo andato e che nei crocchi di campagna tenevano allora il posto della lettura dei giornali. Il Cappellano, com'era di dovere, pagava sempre le spese di cotali trastulli; e ne veniva rimeritato con qualche invito a pranzo, ricompensa più crudele dello stesso malanno. Senonché il più delle volte la preoccupazione di quegli inviti gli metteva addosso la quartana doppia ed egli così non avea d'uopo di bugie per iscusarsene. Quando poi gli veniva fatto di metter piede al di là del ponte levatoio, nessun uomo, credo, si sentiva più felice di lui; ed era questo il compenso de' suoi martirii. Saltava correva si stropicciava le mani il naso i ginocchi; prendeva tabacco, bisbigliava giaculatorie, passava il bastoncino da un'ascella all'altra, parlava, rideva, gesticolava con tutti, e accarezzava ogni persona che gli capitasse sotto mano, fosse un ragazzo, una vecchia, un cane o una giovenca. Io pel primo ebbi la gloria e la cattiveria di scoprire le strane giubilazioni del Cappellano ad ogni sua scappata dal castello; e fatta ch'io ebbi la scoperta, tutti, quand'egli partiva, si affollavano alle finestre del tinello per goder lo spettacolo. Il fattore giurò che una volta o l'altra per la soverchia consolazione egli sarebbe saltato nella peschiera; ma convien dire a lode del povero prete che questo accidente non gli avvenne mai. Il maggior segno di contentezza che diede fu una volta quello di mettersi coi birichini a scampanare a festa dinanzi la chiesa. Ma in quel giorno l'avea scapolata bella. C'era in castello un prelato di Porto, chiamato il Canonico di Sant'Andrea, grande teologo e pochissimo tollerante dell'ignoranza altrui, che avea onorato in addietro e seguitava ad onorar la Contessa del suo patrocinio spirituale. Costui con monsignor Orlando e il Piovano s'era impancato vicino al focolare a dogmatizzar di morale. Il cappellanello che veniva a domandar conto della digestione del signor Conte, come voleva la prammatica di ogni dopopranzo, era stato lì lì per cascare nel trabocchetto; ma a metà della cucina aveva orecchiato la voce del teologo e protetto dalle tenebre se l'avea data a gambe, ringraziando tutti i santi del calendario. Figuratevi se non avea ragione di scampanar d'allegrezza! Oltre a questi due preti e ad altri canonici e abati della città che venivano a visitar di sovente monsignor di Fratta, il castello era frequentato da tutti i signorotti e castellani minori del vicinato. Una brigata mista di beoni, di scioperati, di furbi e di capi ameni, che spassavano la loro vita in caccie in contese in amorazzi e in cene senza termine; e lusingavano del loro corteo l'aristocratico sussiego del signor Conte. Quand'essi capitavano era giorno di gazzarra. Si spillava la miglior botte; molti fiaschi di Picolit e di Refosco perdevano il collo; e le giovani aiutanti della cuoca si rifugiavano nello sciacquatoio. La cuoca poi non conosceva più né amici né nemici; correva qua e là, dava dei gomiti nello stomaco a Martino, pestava i piedi a Monsignore, scannava anitre, sbudellava capponi; e il suo affaccendamento non era superato che da quello del girarrosto, il quale strideva e sudava olio per tutte le carrucole nel dover menare attorno quattro o cinque spedate di lepri e di selvaggina. Si imbandivano mense nella sala e in due o tre camere contigue; e s'accendeva il gran focolare della galleria, il quale era tanto grande che a saziarlo per una volta tanto non si richiedeva meno d'un mezzo passo di legna. Si noti peraltro che dopo la prima vampata la comitiva doveva rifugiarsi dietro le pareti più lontane e nei cantoni per non rimanerne abbrustolita. Lo scalpore più indiavolato era fatto da questi signori; ma le parti di spirito erano in tali circostanze affidate

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Argomenti: povero prete,    fame due,    lungo giubbone,    vero corno,    dignità sinodale

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