Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 117

Testo di pubblico dominio

premio della sua fedeltà. Il contadino gli affondò per tre braccia la buca e poi gli buttò sopra la terra e credette di aver fornito la bisogna. Ma per mesi e mesi continui bisognò ogni mattino rimettere quella terra al suo posto perché il gatto fedele occupava le sue notti a rasparla fuori per riposare ancora sugli avanzi dell'amico. Cosa volete? io rispettai il dolore di quella bestia, né mi bastò il cuore di trafugargli quelle spoglie tanto dilette a lui e così lungamente incomode all'olfatto dei castellani. Le feci coprire con una pietra. Allora il gatto vi posò sopra giorno e notte lamentandosi continuamente, e girando intorno al sepolcro con un miagolio melanconico. Là visse ancora qualche mese, e poi morì; e lo so di sicuro perché non mancai poscia d'informarmi come fosse finita quella tragica amicizia. Diranno poi che i gatti non hanno la loro porzioncella d'anima! Quanto ai cani la loro fama in proposito è bastevolmente assicurata. Il loro affetto ha posto tra gli affetti familiari; l'ultimo posto certo, ma il più costante. Il primo che fece festa al ritorno del figliuol prodigo, scommetto io che fu il cane di casa! E quando mi si gracchia intorno sull'inutilità ed il pericolo di questa numerosa famiglia canina che litiga all'umana il nutrimento, e le inocula talvolta una malattia spaventosa e incurabile, io non posso far a meno di sclamare: — Rispettate i cani! — forse adesso si può star in bilico, ma forse anche, e Dio non voglia, verrà un tempo che si giudicheranno migliori affatto di noi! Di questi tempi ne furono altre volte nella storia dell'umanità. Noi bipedi tentenniamo fra l'eroe ed il carnefice, fra l'angelo e Belzebù. Il cane è sempre lo stesso; non cambia mai come la stella polare. Sempre amoroso paziente e devoto fino alla morte. Ne vorreste di più, voi che non avreste cuore di distruggere neppure una tribù di cannibali?... Intanto io deggio confessare che, quanto a me, la dimora di Fratta non mi pareva più né così tranquilla né così degna come un mese prima. I Francesi mi frullavano pel capo; sognava di diventare qualche coso d'importanza; e questa mi sembrava la miglior via per racquistar l'amore della Pisana. Pensava sempre a Venezia, alla caduta di San Marco, al nuovo ordinamento che ne sarebbe sorto, alla libertà, all'uguaglianza dei popoli. Quel tal general Bonaparte di poco era più attempato di me. Perché non poteva anch'io mutarmi di sbalzo in un vincitore di battaglie, in un salvatore di popoli? L'ambizione mi adescava a braccetto dell'amore: e non sentiva più quel pietoso rispetto per la dolorosa passione di Giulio Del Ponte. Trascurava le faccende di cancelleria, e il più del mio tempo lo perdeva a dottrineggiar di politica con Donato, o a lottare di scherma o al tiro al bersaglio con Bruto Provedoni. Bruto era il più infervorato dei giovani fratelli per la causa della libertà e spesso la Bradamante e l'Aquilina ce ne davano la baia. Esse aveano veduto i Francesi senza concepirne per verità la favorevole opinione che ne avevamo concepita noi, e noi dal canto nostro andavamo in collera quando esse, per divertirci da questo incantesimo, ci tornavano a mente alcune delle nefandità commesse da quei propagatori dell'incivilimento. Soprattutto lo strazio della vecchia Contessa di Fratta non voleva udirlo nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo; e per questo inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito, se le cose andavano per la solita strada; ma la fortuna s'intromise a farla vincere a me coi miei grilli d'ambizione e di superbia. Un bel giorno (eravamo agli ultimi di marzo) mi capita da Venezia una lettera della signora Contessa. Leggo e rileggo la sottoscrizione. Non c'è caso: l'è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch'ella mi scriva e più ancora che la incominci in capo a pagina con un caro nipote. Fui per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio padre! nientemeno che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto, che non si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava, ma il cuore avido d'amare diceva di sì, e già egli volava sulla via di Venezia che non era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d'avervi impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni tanto per paura di aver frainteso e di essermi lusingato indarno. Consegnata la cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva il cuore che non si voleva star cheto; e nel cervello poi mi sobbollivano tante speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d'impossibile, che non ebbi più pace. La Contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti; aggiungeva che mio padre non iscriveva lui perché avea disimparato l'alfabeto italiano, che smontassi intanto presso di lei non più in casa Frumier ma in casa Perabini in Canarregio, e finiva col mandare al diletto nipote i baci suoi e della cugina Pisana. Mio padre e costei mi stavano sul cuore assai più della zia. CAPITOLO DECIMOPRIMO Come a Venezia si accorgessero che gli Stati della Serenissima facevano parte dell'Italia e del mondo. Mio ingresso nel Maggior Consiglio come patrizio veneziano al dì primo di maggio 1797. Macchinazioni contro il governo fomentate dagli amici e dai nemici della patria. Cade la Repubblica di San Marco come il gigante di Nabucco, ed io divento segretario della nuova Municipalità. La prima persona che vidi e che abbracciai a Venezia fu la Pisana; la prima che mi parlò fu la signora Contessa la quale dal fondo dell'appartamento correndo verso di me s'affaccendava a gridarmi: — Bravo, il mio Carlino, bravo!... Come ti vedo volentieri!... Su dunque, un bel bacione da vero nipote!... — Io passai di malissima voglia dai baci della Pisana a quelli della Contessa ancor più gialla e uncinata che per l'addietro. Ma anche in quel tumulto di affetti che mi turbava allora, rimase un buon cantuccio per la meraviglia d'un sì inusato accoglimento. Mi rassegnai a chiarirmene in seguito e intanto la Contessa mandò fuori la Rosa in cerca di mio padre. Questa missione della fida cameriera mi sorprese anche un poco, tanto più che essa, non più giovane ma sempre bisbetica com'era stata, vi si disponeva con assai borbottamenti. Tali incarichi appartenevano agli staffieri, e cominciai a dubitare che il seguito della Contessa non fosse molto numeroso. Infatti, stando lì ad aspettare, osservai nelle camere quello che non parrebbe possibile, un grandissimo disordine nella stessa nudità: polvere e ragnatele componevano gli addobbi; qualche mobile, qualche infisso nel muro; poche seggiole sparute e tisicuzze qua e là; insomma la vera miseria abitante in un palazzo. Ma quello che distoglieva la mente da queste melanconie era l'aspetto della Pisana. Più bella più fresca più gioconda io non l'aveva veduta mai; e tale ella sapeva di essere, benché con mille vezzi imparati novellamente a Venezia cercasse di offuscare lo splendor di quei pregi. Ma fosse dono di natura, o cecità mia, perfino gli artifizi prendevano nelle sue fattezze un incanto di leggiadria. Peraltro la ritrovai ancor più taciturna e meno espansiva del solito; la mi guardava a tratti coll'anima negli occhi, indi chinava gli sguardi arrossendo, e le mie parole sembravano dilettarle voluttuosamente l'orecchio senzaché colla mente arrivasse a comprenderle. A tutto ciò io badava mentre la Contessa zia mi annegava in un subisso di chiacchiere, ed io non ne capiva un iota; soltanto mi ferì spesse volte il nome di mio padre, e mi parve accorgermi ch'ella pure fosse molto lieta del suo inaspettato e miracoloso ritorno. — E non torna mai quella sciocca di Rosa! — borbottava la signora. — Io non ho voluto che ci andassi tu, perché voglio proprio

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Argomenti: san marco,    nuovo ordinamento,    gatto fedele,    favorevole opinione,    sommo stupore

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