Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 109

Testo di pubblico dominio

bersagliati peggio di noi. La compassione dei mali che vedeva, mi armava di pazienza per quelli che sentiva. La Pisana mi avea promesso di scrivermi di tanto in tanto; io l'avea lasciata promettere e sapeva fin d'allora quanto dovessi fidarmi alla sua parola. Infatti trascorsero parecchi mesi senza ch'io avessi sentore di lei, e soltanto sul cader della state mi pervenne una lettera strana assurda scarabocchiata, nella quale la veemenza dell'affetto e l'umiltà delle espressioni mi compensavano un poco della passata trascuranza. Ma sarebbe stato compenso per tutt'altri che per me. Io conosceva quella testolina vulcanica; e sapeva che, sfogato quel suo impeto di pentimento e di tenerezza, sarebbe tornata per Dio sa quanto tempo all'indifferenza di prima. Alcuni versi di Dante mi stavano fitti in capo come tanti coltelli avvelenati: ‘ ... indi s'apprende quanto in femmina il foco d'amor dura se l'occhio o il tatto spesso nol raccende. ’ Quel piccolo Dantino io l'avea pescato nel mare magnum di libracci di zibaldoni e di registri donde la Clara anni prima avea raccolto la sua piccola biblioteca. E a lei quel libricciuolo roso e tarlato, pieno di versi misteriosi, di abbreviature più misteriose ancora, e di immagini di dannati e di diavoleria, non avea messo nessunissima voglia. Io invece, che l'avea sentito lodare e citare a Portogruaro ed a Padova più o meno a sproposito, mi parve trovare un gran tesoro; e cominciai ad aguzzarvi entro i denti, e per la prima volta giunsi fino al canto di Francesca che il diletto era minore d'assai della fatica. Ma in quel punto cominciai ad innamorarmene. Piantai i piedi al muro, lo lessi fino alla fine; lo rilessi godendo di ciò che capiva allora e prima mi era parso non intelligibile. Insomma finii con venerare in Dante una specie di nume domestico; e giurava tanto in suo nome, che perfino quei due versi citati poco fa mi sembravano articoli del credo. Notate che allora non s'impazziva ancora pel Trecento; e che né il Monti aveva scritto la Bassvilliana, né le Visionidel Varano piacevano se non agli eruditi. Voi già vi beffate di me; ma vi siete accorti che questa religione dantesca, creata da me solo, giovinetto non filologo, non erudito, io me la reco a non piccola gloria. E avrete anco ragione. Ed io me ne glorio di più ancora, giacché più che i versi, più che la poesia, amava l'anima e il cuore di Dante. Quanto alle sue passioni, erano grandi forti intellettuali e mi piacevano in ragione di queste qualità, fatte omai tanto rare. Tuttociò s'appicca poco a proposito col proverbio: lontano dagli occhi, lontano dal cuore; ma a Dante è piaciuto applicar quel proverbio alla fedeltà delle donne, ed io ho tirato in campo lui, ed i miei studi scervellati di sessant'anni fa, come le memorie mi venivano. Pur troppo in chi racconta la propria vita s'hanno a compatire sovente di cotali digressioni. Io poi per tirar innanzi ho proprio bisogno della vostra generosità, o amici lettori; ma su questo particolare delle mie glorie letterarie dovete usarmi indulgenza doppia, perché le meno e le rimeno, come si dice, appunto perché ne conosco la pochezza. I nostri grandi autori li ho piuttosto indovinati che compresi, piuttosto amati che studiati; e se ve la devo dire, la maggior parte mi alligavano i denti. Sicuro che il difetto sarà stato mio; ma pur mi lusingo che pel futuro anche chi scrive si ricorderà di esser solito a parlare, e che lo scopo del parlare è appunto quello di farsi intendere. Farsi intendere da molti, o non è forse meglio che farsi intendere da pochi? In Francia si stampano si vendono e si leggono più libri non per altro che per la universalità della lingua e la chiarezza del discorso. Da noi abbiamo due o tre vocabolari, e i dotti hanno costumi di appigliarsi al più disusato. Quanto poi alla logica la adoperano come un trampolo a spiccare continui salti d'ottava e di decima. Quelli che son soliti a salire gradino per gradino restano indietro le mezze miglia, e perduto che hanno di vista la guida siedono comodamente ad aspettarne un'altra che forse non verrà mai. Animo dunque: non dico male di nessuno: ma scrivendo, pensate che molti vi abbiano a leggere. E così allora si vedrà la nostra letteratura porger maggior aiuto che non abbia dato finora al rinnovamento nazionale. E la lettera della Pisana dove l'ho lasciata? — Fidatevi: sono un girellone ma dàlli dàlli alle lunghe ci torno. La lettera della Pisana l'ho ancora qui insieme alle altre nel cantero più profondo del mio scrittoio: e se ne avessi voglia potrei farvi assaggiare qualche fioretto di lingua d'un gusto molto bizzarro; ma vi basterà sapere che la mi dava notizia della Clara sempre novizia in convento e un po' anche di Lucilio, il quale faceva parlar molto di sé a Venezia col suo fanatismo pei Francesi. Se costoro davano volta gli si pronosticava una brutta fine. Ma di dar volta non se la sognavano nemmeno, quegli invasati Francesi d'allora! La guerra contro di loro s'era impiccolita: soltanto l'Austria e il Piemonte duravano in campo; e così ridotta essi la sostenevano con miglior animo e con maggiori speranze di prima. Peraltro non accaddero grandi novità fino all'inverno e allora, chi le ebbe se le tenne; quello che doveva inventar la guerra d'ogni mese non aveva ancor fatto capolino dalle Alpi, e le nevi intimarono il solito armistizio. Quell'inverno fu il più lungo e il più tranquillo che passassi in mia vita. Le cure del mio uffizio mi tenevano occupato assiduamente. Fuori di quelle il pensiero della Pisana mi martellava sempre; ma la sua lontananza se aggiungeva melanconia toglieva anche acerbità al mio cordoglio. Sempre poi trovava qualche ristoro nell'idea di aver fatto il mio dovere. Giulio Del Ponte mi scrisse un paio di volte; lettere balzane e sibilline, vere lettere d'un innamorato ad un amico. Dalle quali comprendeva benissimo ch'egli non era felice pienamente; anzi che quella sua mezza felicità dell'ultimo anno s'era venuta a Venezia assottigliando di molto, sia pel bizzarro umore della Pisana, sia pel crescere dei desiderii. Quelle lettere pertanto mi angustiavano per lui, e per me quasi mi rallegravano. Da una parte capiva che se fossi stato a Venezia anch'io, non ci avrei forse goduto maggior felicità che a Fratta, e dall'altra, credete voi che le contentezze d'un rivale, per quanto degno ed amico, ci diano in fondo un gusto proprio sincero? — Non vedendo i patimenti di Giulio così davvicino, io era più disposto a perdonarli a chi glieli infliggeva; non voglio darmi per un santo; la cosa era proprio tal quale ve la confesso. Del resto nella nostra solitudine nulla s'era cambiato. Il Contino sempre nella sua stanza; la Contessa che chiedeva denari con ogni corriere e la vecchia nonna sempre confitta nel suo letto e affidata alla sorveglianza della signora Veronica e della Faustina. Intorno al camino erano rimasti il Capitano e monsignor Orlando che litigavano ogni sera per accomodare il foco. Ciascuno volea brandire l'attizzatoio, ciascuno voleva disporlo a proprio modo, e finivano col bruciar la coda al vecchio Marocco che si ricoverava malcontento sotto il secchiaio. Ad ogni gazzetta vecchia che ci capitasse, il Capitano trionfava di vedere quei maledetti Francesi arenati fra gli Appennini e le Alpi. Non più quattro, ma sei, ed otto anni di tempo avrebbe lor dato per passarle. — Intanto — diceva egli — si può far venire sul Mincio tutta armata la Schiavonia, e mi saprebbero essi dire come andrebbe il giuoco! Marchetto Fulgenzio e la cuoca, che soli formavano l'uditorio, non avevano certo la pretesa di smantellare i bei castelli in aria del Capitano; e il Cappellano, quando c'era, lo aiutava a fabbricarli colla sua credula ignoranza. Io poi dimenava il capo, e non mi ricordo bene cosa ne pensassi. Certo le opinioni del Capitano non dovevano entrarmi gran fatto appunto perché erano sue. Sul più bello giunse un giorno la notizia che un generale giovine e affatto nuovo

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Argomenti: bizzarro umore

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