Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 70

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sconsolata da dolersi ha quant'io, ch'invan sospiro, lassa innamorata. Colui che move il cielo e ogni stella mi fece a suo diletto vaga, leggiadra, graziosa e bella, per dar qua giù a ogni alto intelletto alcun segno di quella biltà che sempre a Lui sta nel cospetto; e il mortal difetto, come mal conosciuta, non mi gradisce, anzi m'ha dispregiata. Già fu chi m'ebbe cara e volentieri giovinetta mi prese nelle sue braccia e dentro a' suoi pensieri, e de' miei occhi tututto s'accese e 'l tempo, che leggieri sen vola, tutto in vagheggiarmi spese; e io, come cortese, di me il feci degno; ma or ne son, dolente a me!, privata. Femmisi innanzi poi presuntuoso un giovinetto fiero, sé nobil reputando e valoroso, e presa tienmi e con falso pensiero divenuto è geloso; laond'io, lassa!, quasi mi dispero, cognoscendo per vero, per ben di molti al mondo venuta, da uno essere occupata. Io maledico la mia sventura, quando, per mutar vesta, sì dissi mai; sì bella nella oscura mi vidi già e lieta, dove in questa io meno vita dura, vie men che prima reputata onesta. O dolorosa festa, morta foss'io avanti che io t'avessi in tal caso provata! O caro amante, del qual prima fui più che altra contenta, che or nel ciel se' davanti a Colui che ne creò, deh! pietoso diventa di me, che per altrui te obliar non posso: fa ch'io senta che quella fiamma spenta non sia che per me t'arse, e costà sù m'impetra la tornata. Qui fece fine la Lauretta alla sua canzone, nella quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa: e ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa; altri furono di più sublime e migliore e più vero intelletto, del quale al presente recitar non accade. Il re, dopo questa, su l'erba e 'n su i fiori avendo fatti molti doppieri accendere ne fece più altre cantare infino che già ogni stella a cader cominciò che salia; per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si tornasse. Quarta giornata FINISCE LA TERZA GIORNATA DEL DECAMERON: E INCOMINCIA LA QUARTA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI FILOSTRATO, SI RAGIONA DI COLORO LI CUI AMORI EBBERO INFELICE FINE. Introduzione Carissime donne, sì per le parole de' savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo 'mpetuoso vento e ardente della 'nvidia non dovesse percuotere se non l'alte torri o le più levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe' piani ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato d'andare; il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono. Né per tutto ciò l'essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi pressoché diradicato e tutto da' morsi della 'nvidia esser lacerato, non ho potuto cessare; per che assai manifestamente posso comprendere quello esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi e, alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l'andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le vi porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne' vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Idio, ascolto e intendo: e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze, anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto, essi son molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo; né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre. Ma avanti che io venga a far la risposta a alcuno, mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia, quale fu quella che dimostrata v'ho, mescolare, ma parte d'una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle; e a' miei assalitori favelando dico Che nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere, ma ricco e bene inviato e esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, e ella lui, e insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l'uno all'altro. Ora avvenne, sì come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d'età di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo rimanesse; e veggendosi di quella compagnia, la quale egli più amava, rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo ma di darsi al servigio di Dio e il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n'andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove egli fosse, d'alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere acciò che esse da così fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de' santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze: e quivi secondo le sue oportunità dagli amici di Dio sovenuto, alla sua cella tornava. Ora avvenne che, essendo già il garzone d'età di diciotto anni e Filippo vecchio, un dì il domandò ov'egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: “Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe' nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi qui?” Il valente uomo, pensando che già questo suo figliuolo era grande e era sì abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: “Costui dice bene”; per che, avendovi a andare, seco il menò. Quivi il giovane veggendo

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Argomenti: tanto studio,    donna tanto,    alto intelletto,    falso pensiero,    notte ciascuno

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