Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 141

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gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l'ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere; e infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti è forse meglio che quel cotale che avuto l'avesse in penitenza il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto.” Ciascun che v'era disse che ne voleva volentier mangiare: per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all'un de' capi, cominciò a dare a ciascun la sua; e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare, ma sì tosto come la lingua sentì l'aloè, così Calandrino, non potendo l'amaritudine sostenere, la sputò fuori. Quivi ciascun guatava nel viso l'uno all'altro per veder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembiante d'intendere a ciò, s'udì dir dietro: “Eia, Calandrino, che vuol dir questo?” per che prestamente rivolto e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse: “Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un'altra”; e presa la seconda, gliele mise in bocca e fornì di dare l'altre che a dare avea. Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima: ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco faceva dar bere alla brigata e Bruno: li quali insieme con gli altri questo vedendo tutti dissero che per certo Calandrino se l'aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresero. Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl'incominciò Buffalmacco a dire: “Io l'aveva per lo certo tuttavia che tu te l'avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato per non darci una volta bere de' denari che tu n'avesti.” Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l'amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l'avea. Disse Buffalmacco: “Ma che n'avesti, sozio, alla buona fé? avestine sei?” Calandrino, udendo questo, s'incominciò a disperare; a cui Brun disse: “Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevé, che mi disse che tu avevi quinci sù una giovinetta che tu tenevi a tua posta e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l'avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato a esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone raccogliendo pietre nere: e quando tu ci avesti messi in galea senza biscotto, e tu te ne venisti e poscia ci volevi far credere che tu l'avessi trovata! e ora similmente ti credi co' tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscianle; tu non ce ne potresti far più! E per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l'arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.” Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi; li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.– 7 Uno scolare ama una donna vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la neve a aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio ignuda tutto un dì la fa stare in sù una torre alle mosche e a' tafani e al sole. Molto avevan le donne riso del cattivello di Calandrino, e più n'avrebbono ancora, se stato non fosse che loro increbbe di vedergli torre ancora i capponi a coloro che tolto gli avevano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose che dicesse la sua; e essa prestamente così cominciò: –Carissime donne, spesse volte avviene che l'arte è dall'arte schernita, e per ciò è poco senno il dilettarsi di schernire altrui. Noi abbiamo per più novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta esserne stata fatta s'è raccontato: ma io intendo di farvi avere alquanta compassione d'una giusta retribuzione a una nostra cittadina renduta, alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno. Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d'animo altiera e di legnaggio assai gentile, de' beni della fortuna convenevolmente abondante, e nominata Elena. La quale rimasa del suo marito vedova mai più maritar non si volle, essendosi ella d'un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorato; e da ogni altra sollecitudine sviluppata, con l'opera d'una sua fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso diletto si dava buon tempo. Avvenne in questi tempi che un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienza a minuto, come molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse, il che ottimamente sta in gentile uomo, tornò da Parigi a Firenze; e quivi onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua scienza cittadinescamente viveasi. Ma come spesso avviene coloro ne' quali è più l'avvedimento delle cose profonde più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato a una festa, davanti agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui potersi beato chiamare al quale Idio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere. E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollecitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse e per questo il potere aver copia di lei. La giovane donna, la quale non teneva gli occhi fitti in inferno ma, quello e più tenendosi che ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno e prestamente conosceva chi con diletto la riguardava; e accortasi di Rinieri, in se stessa ridendo disse: “Io non ci sarò oggi venuta invano, ché, se io non erro, io avrò preso un paolin per lo naso.” E cominciatolo con la coda dell'occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva s'ingegnava di dimostrargli che di lui gli calesse, d'altra parte pensandosi che quanti più n'adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio fosse la sua bellezza e massimamente a colui al quale ella insieme col suo amore l'aveva data. Il savio scolare, lasciati i pensier filosofici da una parte, tutto l'animo rivolse a costei; e, credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v'incominciò a passare con varie cagioni colorando l'andate. Al quale la donna, per la cagion già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di vederlo assai volentieri: per la qual cosa lo scolare, trovato modo, s'accontò con la fante di lei e il suo amor le scoperse e la pregò che con la sua donna operasse sì, che la grazia di lei potesse avere. La fante promise largamente e alla sua donna il raccontò; la quale con le maggior risa del mondo l'ascoltò e disse: “Hai veduto dove costui è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi

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