Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 182

Testo di pubblico dominio

esser le pare ingannato, non io ne son da riprendere, ma ella, che me non dimandò chi io fossi. Questo è adunque il gran male, il gran peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate, minacciate e insidiate. E che ne fareste voi più, se egli a un villano, a un ribaldo, a un servo data l'avesse? quali catene, qual carcere, quali croci ci basterieno? Ma lasciamo ora star questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava, cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per che, meco volendone Sofronia menare, v'ho palesato quello che io forse ancora v'avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete per ciò che, se ingannare o oltreggiare v'avessi voluto, schernita ve la poteva lasciare: ma tolga Idio via questo, che in romano spirito tanta viltà albergar possa giammai. Ella adunque, cioè Sofronia, per consentimento degl'iddii e per vigor delle leggi umane e per lo laudevole senno del mio Gisippo e per la mia amorosa astuzia è mia. La qual cosa voi, per avventura più che gl'iddii o che gli altri uomini savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi danniate: l'una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi piaccia, alcuna ragion non avete; e l'altra è il trattar Gisippo, al quale meritamente obligati siete, come nemico. Nelle quali quanto scioccamente facciate io non intendo al presente di più aprirvi, ma come amici vi consigliare che si pongan giuso gli sdegni vostri, e i crucci presi si lascino tutti e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro parente mi parta e viva vostro: sicuri di questo che, o piacciavi o non piacciavi quel che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei che è meritamente mia, mal grado che voi n'abbiate; e quanto lo sdegno de' romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienza conoscere.” Poi che Tito così ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello crollando la testa e minacciando s'uscì. Quegli che là entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà indotti e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia diliberarono essere il migliore d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito per nemico acquistato. Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d'aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico: e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono; la quale, sì come savia, fatta della necessità vertù, l'amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito, e con lui se n'andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta. Gisippo, rimasosi in Atene quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo per certe brighe cittadine con tutti quegli di casa sua povero e meschino fu d'Atene cacciato e dannato a essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo e divenuto non solamente povero ma mendico, come poté il men male a Roma se ne venne per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i roman grazioso e le sue case apparate, dinanzi a esse si mise a star tanto che Tito venne. Al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di far motto ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito ricognoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito e a Gisippo parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì. E essendo già notte e esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che d'altro di morir disideroso, s'avenne in un luogo molto salvatico della città: dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'adormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati a imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino e a quistion venuti, l'uno, che era più forte, uccise l'altro e andò via. La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò senza partirsi tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sì come allora s'usava. Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò: “Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente: io ho assai con una colpa offesi gl'iddii uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un altro innocente offendergli.” Varrone si maravigliò e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi da far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo e in presenzia di Tito gli disse: “Come fostù sì folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso.” Gisippo guardò e vide che colui era Tito e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sì come grato del servigio già ricevuto da lui; per che, di pietà piagnendo, disse: “Varrone, veramente io l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.” Tito d'altra parte diceva: “Pretore, come tu vedi, costui è forestiere e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire: e per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci.” Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due e già presummeva niuno dovere esser colpevole; e pensando al modo della loro absoluzione, e ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i romani notissimo ladrone, il quale veramente l'omicidio avea commesso; e conoscendo niuno de' due esser colpevole di quello di che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone e disse: “Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura question di costoro, e non so quale idio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare: e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascun se medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dì; e questo cattivello che qui è là vid'io che si dormiva mentre che io i furti fatti dividea con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto lui non essere uomo di tal condizione: adunque liberagli e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono.” Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condennato; la quale ciascun narrò. Ottaviano li due per ciò che erano innocenti e il terzo per amor di lor liberò. Tito, preso il suo Gisippo e molto prima della sua tiepidezza e diffidenza ripresolo,

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Argomenti: povero uomo,    grande onore,    star tanto,    romano spirito,    pari concordia

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