Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 156

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graziosa ne fia che l'avere pur d'una parlato; e così avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrà, sì come più forti, con maggior sicurtà ne potrà nell'usate leggi ristrignere.–E detto questo, infino all'ora della cena libertà concedette a ciascuno. Comendò ciascun la reina delle cose dette sì come savia; e in piè drizzatisi, chi a un diletto e chi a un altro si diede: le donne a far ghirlande e a trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare; e così infino all'ora della cena passarono. La quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e con piacer cenarono, e dopo la cena al modo usato cantando e ballando si trastullarono. Alla fine la reina, per seguire de' suoi predecessori lo stilo, non obstanti quelle che volontariamente avean dette più di loro, comandò a Panfilo che una ne dovesse cantare; il quale liberamente così cominciò: Tanto è, Amore, il bene ch'io per te sento, e l'allegrezza e 'l gioco, ch'io son felice ardendo nel tuo foco. L'abondante allegrezza ch'è nel core, dell'alta gioia e cara nella qual m'hai recato, non potendo capervi esce di fore, e nella faccia chiara mostra 'l mio lieto stato; ch'essendo innamorato in così alto e raguardevol loco, lieve mi fa lo star dov'io mi coco. Io non so col mio canto dimostrare, né disegnar col dito, Amore, il ben ch'io sento; e s'io sapessi, mel convien celare; ché, s'el fosse sentito, torneria in tormento: ma io son sì contento, ch'ogni parlar sarebbe corto e fioco pria n'avessi mostrato pure un poco. Chi potrebbe estimar che le mie braccia aggiugnesser già mai là dov'io l'ho tenute, e ch'io dovessi giunger la mia faccia là dov'io l'accostai per grazia e per salute? Non mi sarien credute le mie fortune; ond'io tutto m'infoco, quel nascondendo ond'io m'allegro e gioco. La canzone di Panfilo aveva fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun ve n'ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli di convenirgli tener nascoso cantava; e quantunque varii varie cose andassero imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne. Ma la reina, poi che vide la canzon di Panfilo finita e le giovani donne e gli uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n'andasse a dormire. Nona giornata FINISCE L'OTTAVA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA LA NONA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO D'EMILIA, SI RAGIONA CIASCUNO SECONDO CHE GLI PIACE E DI QUELLO CHE PIÙ GLI AGRADA. Introduzione La luce, il cui splendore la notte fugge, aveva già l'ottavo cielo d'azzurrino in color cilestro mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso, quando Emilia levatasi fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare; li quali venuti e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino a un boschetto non guari al palagio lontano se n'andarono, e per quello entrati, videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri da' cacciatori per la soprastante pistolenzia, non altramenti aspettargli che se senza tema o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a quell'altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e saltare, per alcuno spazio sollazzo presero: ma già inalzando il sole, parve a tutti di ritornare. Essi eran tutti di frondi di quercia inghirlandati, con le man piene o d'erbe odorifere o di fiori; e chi scontrati gli avesse, niuna altra cosa avrebbe potuto dire se non: “O costor non saranno dalla morte vinti o ella gli ucciderà lieti.” Così adunque, piede innanzi piè venendosene, cantando a cianciando e motteggiando, pervennero al palagio, dove ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono che sei canzonette più liete l'una che l'altra da' giovani e dalle donne cantate furono. Appresso alle quali, data l'acqua alle mani, tutti secondo il piacere della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove, le vivande venute, allegri tutti mangiarono: e da quello levati, al carolare e al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, comandandolo la reina, chi volle s'andò a riposare. Ma già l'ora usitata venuta, ciascuno nel luogo usato s'adunò a ragionare, dove la reina, a Filomena guardando, disse che principio desse alle novelle del presente giorno; la quale sorridendo cominciò in questa guisa. 1 Madonna Francesca, amata da un Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per morto in una sepoltura e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso. –Madonna, assai m'agrada, poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra magnificenzia n'ha messi, del novellare, d'esser colei che corra il primo aringo: il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso verranno non facciano bene e meglio. Molte volte s'è, o vezzose donne, ne' nostri ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze d'amore; né però credo che pienamente se ne sia detto né sarebbe ancora, se di qui a uno anno d'altro che di ciò non parlassimo: e per ciò che esso non solamente a varii dubbii di dover morire gli amanti conduce ma quegli ancora a entrare nelle case de' morti per morti tira, m'agrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette sono, una novella nella quale non solamente la potenzia d'amore comprenderete, ma il senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due, che contro al suo piacere l'amavan, cognoscerete. Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la qual due nostri fiorentini, che per aver bando di Firenze dimoravano, chiamati l'uno Rinuccio Palermini e l'altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l'uno dell'altro, per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente ciascuno ciò che per lui si poteva a dovere l'amor di costei acquistare. E essendo questa gentil donna, il cui nome fu madonna Francesca de' Lazzari, assai sovente stimolata da 'mbasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella a esse men saviamente più volte gli orecchi porti e volendosi saviamente ritrarre e non potendo, le venne, acciò che la loro seccaggine si levasse da dosso, un pensiero: e quel fu di volergli richiedere d'un servigio il quale ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile, acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di più non volere le loro ambasciate udire; e 'l pensiero fu questo. Era, il giorno che questo pensiero le venne, morto in Pistoia uno il quale, quantunque stati fossero i suoi passati gentili uomini, era riputato il piggiore uomo che, non che in Pistoia, ma in tutto il mondo fosse; e oltre a questo vivendo era sì contrafatto e di sì divisato viso, che chi conosciuto non l'avesse, vedendol da prima, n'avrebbe avuta paura. E era stato sotterrato in uno avello fuori della chiesa de' frati minori; il quale ella avvisò dovere in parte essere grande acconcio del suo proponimento. Per la qual cosa ella disse a una sua fante: “Tu sai la noia e l'angoscia la quale io tutto il dì ricevo dell'ambasciate di questi due fiorentini, da Rinuccio e da Allessandro. Ora io non son disposta a dover loro del mio amor compiacere e per torglimi da dosso m'ho posto in cuore, per le grandi proferte che fanno, di volergli in cosa provare la quale io son certa che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come. Tu sai che istamane fu sotterato al ugo de' frati minori lo Scannadio” così era chiamato quel reo uomo di cui di sopra dicemmo del quale, non che morto ma vivo, i più sicuri uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e però tu te n'andrai segretamente in prima a Alessandro e sì gli dirai: ‘Madonna Francesca ti manda dicendo che ora è venuto il tempo che tu puoi avere il suo amore, il quale tu hai cotanto disiderato, e

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