Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 142

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recato? Or via, diangli di quello ch'e' va cercando. Dira'gli, qualora egli ti parla più, che io amo molto più lui che egli non ama me, ma che a me si convien di guardar l'onestà mia, sì che io con l'altre donne possa andare a fronte scoperta: di che egli, se così è savio come si dice, mi dee molto più cara avere.” Ahi cattivella, cattivella! ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli scolari. La fante, trovatolo, fece quello che dalla donna sua le fu imposto. Lo scolar lieto procedette a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era ricevuta ma indietro non venivan risposte se non generali: e in questa guisa il tenne gran tempo in pastura. Ultimamente, avendo ella al suo amante ogni cosa scoperta e egli essendose con lei alcuna volta turbato e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei sospicasse, sollecitandola lo scolar molto, la sua fante gli mandò, la quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter far cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva certa, se non che per le feste del Natale che s'apressava ella sperava di potere esser con lui: e per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe. Lo scolare, più che altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna: e messo dalla fante in una corte e dentro serratovi quivi la donna cominciò a aspettare. La donna, avendosi quella sera fattosi venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò che fare quella notte intendeva gli ragionò aggiugnendo: “E potrai vedere quanto e quale sia l'amore il quale io ho portato e porto a colui del quale scioccamente hai gelosia presa.” Queste parole ascoltò l'amante con gran piacer d'animo, disideroso di veder per opera ciò che la donna con parole gli dava a intendere. Era per avventura il dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma aspettando di ristorarsi pur pazientemente il sosteneva. La donna al suo amante disse dopo alquanto: “Andiancene in camera e da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui se' divenuto geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante la quale io gli ho mandata a favellare.” Andatisene adunque costoro a una finestretta e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un'altra favellare allo scolare e dire: “Rinieri, madonna è la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è stasera venuto un de' suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle cenar con lei e ancora non se n'è andato, ma io credo che egli se n'andrà tosto; e per questo non è ella potuto venire a te ma tosto verrà oggimai: ella ti priega che non ti incresca l'aspettare.” Lo scolare, credendo questo esser vero, rispose: “Dirai alla mia donna che di me niun pensier si dea infino a tanto che ella possa con suo acconcio per me venire, ma che questo ella faccia come più tosto può.” La fante dentro tornatasi se n'andò a dormire; la donna allora disse al suo amante: “Ben, che dirai? credi tu che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse là giù a agghiacciare?” E questo detto, con l'amante suo, che già in parte era contento, se n'andò a letto, e grandissima pezza stettero in festa e in piacere, del misero scolare ridendosi e faccendosi beffe. Lo scolare andando per la corte sé essercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse, ma invano sperava. Essa infino vicino della mezzanotte col suo amante sollazzatasi, gli disse: “Che ti pare, anima mia, dello scolar nostro? qual ti par maggiore o il suo senno o l'amor ch'io gli porto? faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li miei motti vi t'entrò l'altrieri?” L'amante rispose: “Cuor del corpo mio, sì, assai conosco che così come tu se' il mio bene e il mio reposo e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.” “Adunque” diceva la donna “or mi bascia ben mille volte, a veder se tu di' vero.” Per la qual cosa l'amante abbracciandola stretta, non che mille ma più di centomilia la basciava. E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la donna: “Deh! levianci un poco e andiamo a vedere se 'l fuoco è punto spento nel quale questo mio novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.” E levati, alla finestretta usata n'andarono; e nella corte guardando, videro lo scolare far su per la neve una carola trita, al suono d'un batter di denti che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano. Allora disse la donna: “Che dirai, speranza mia dolce? parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?” A cui l'amante ridendo rispose: “Diletto mio grande, sì.” Disse la donna: “Io voglio che noi andiamo in fin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò: e udirem quello che egli dirà e per avventura n'avremo non men festa che noi abbiam di vederlo.” E aperta la camera chetamente se ne scesero all'uscio: e quivi, senza aprir punto, la donna con voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò. Lo scolare, udendosi chiamare, lodò Idio credendosi troppo bene entrar dentro, e accostatosi all'uscio disse: “Eccomi qui, madonna: aprite per Dio, ché io muoio di freddo.” La donna disse: “O sì, che io so che tu se' uno assiderato! e anche è il freddo molto grande, perché costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio maladetto fratello, che iersera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora: ma egli se n'andrà tosto, e io verrò incontanente a aprirti. Io mi son testé con gran fatica scantonata da lui per venirti a confortare che l'aspettar non t'incresca.” Disse lo scolare: “Deh! madonna, io vi priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa costì dentro stare al coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi sarà a grado.” Disse la donna: “Oimè, ben mio dolce, che io non posso, ché questo uscio fa sì gran romore quando s'apre, che leggiermente sarei sentita da fratelmo se io t'aprissi: ma io voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare a aprirti.” Disse lo scolare: “Ora andate tosto; e priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io entrerò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì freddo, che appena sento di me.” Disse la donna: “Questo non dee potere essere, se quello è vero che tu m'hai più volte scritto, cioè che tu per l'amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi beffi. Ora io vo: aspettati e sie di buon cuore.” L'amante, che tutto udiva e aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono, anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono. Lo scolar cattivello, quasi cicogna divenuto sì forte batteva i denti, accorgendosi d'esser beffato più volte tentò l'uscio se aprir lo potesse e riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità della donna e la lunghezza della notte insieme con la sua semplicità, e sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio trasmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava che prima d'esser con la donna non avea disiato. La notte, dopo molta e lunga dimoranza, s'avicinò al dì e

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Argomenti: cotale ragionamento,    simile veduta,    acerbo odio

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