Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 55

Testo di pubblico dominio

La donna ridendo (e di buon'aria e valente donna era e forse avendo cagion di ridere) rispose: “Come non sapete voi quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: «Chi la sera non cena, tutta notte si dimena».” Credettesi frate Puccio che il digiunare le fosse cagione di non potere dormire e per ciò per lo letto si dimenasse; per che egli di buona fede disse: “Donna, io t'ho ben detto: ‘Non digiunare’; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò, pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar ciò che ci è.” Disse allora la donna: “Non ve ne caglia, no; io so ben ciò ch'io mi fo: fate pur ben voi, ché io farò ben io se io potrò.” Stettesi adunque cheto frate Puccio e rimise mano a' suoi paternostri; e la donna e messer lo monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un letto, in quello quanto durava il tempo della penitenza di frate Puccio con grandissima festa si stavano; e a una ora il monaco se n'andava e la donna al suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate Puccio. Continuando adunque in così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo diletto, più volte motteggiando disse con lui: “Tu fai fare la penitenzia a frate Puccio, per la quale noi abbiamo guadagnato il Paradiso.” E parendo molto bene stare alla donna, sì s'avezzò a' cibi del monaco, che, essendo dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui e con discrezione lungamente ne prese il suo piacere. Di che, acciò che l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che dove frate Puccio faccendo penitenza si credette mettere in Paradiso, egli vi mise il monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come misericordioso, gran divizia le fece.– 5 Il Zima dona a messer Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenza di lui parla alla sua donna; e ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondola sua risposta poi l'effetto segue. Aveva Panfilo non senza risa delle donne finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la reina a Elissa impose che seguisse: la quale anzi acerbetta che no, non per malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare: –Credonsi molti, molto sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono; per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a tentar le forze dell'altrui ingegno. Ma perché forse ogni uom della mia opinion non sarebbe, quello che a un cavalier pistolese n'adivenisse, l'ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi. Fu in Pistoia nella famiglia de' Vergellesi un cavaliere nominato messer Francesco, uomo molto ricco e savio e avveduto per altro ma avarissimo senza modo. Il quale, dovendo andar podestà di Melano, d'ogni cosa oportuna a dovere onorevolmente andare fornito s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né trovandone alcuno che gli piacesse ne stava in pensiero. Era allora un giovane in Pistoia il cui nome era Ricciardo, di picciola nazione ma ricco molto, il quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima; e avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto. Ora aveva costui un de' più belli pallafren di Toscana e avevalo molto caro per la sua bellezza; e essendo a ogni uom publico lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addimandasse, che egli l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna portava. Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele proferesse in dono. Il Zima udendo ciò, gli piacque e rispose al cavaliere: “Messer, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse, con questa condizione: che io, prima che voi il prendiate, possa con la grazia vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna vostra, tanto da ogni uom separato che io da altrui che da lei udito non sia.” Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piaceva e quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera alla donna e, quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafren guadagnare, le 'mpose che a udire il Zima venisse ma ben si guardasse che a niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo: e appresso al marito andò nella sala a udire ciò che il Zima volesse dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala assai lontano da ogni uomo con la donna si pose a sedere e così cominciò a dire: “Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia condotto la vostra bellezza, la quale senza alcun fallo trapassa ciascuna altra che veder mi paresse giammai, lascio stare de' costumi laudevoli e delle virtù singulari che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo. E per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole quello essere stato il maggiore e il più fervente che mai uomo a alcuna donna portasse: e così sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi membri, e ancor più, ché, se di là come di qua s'ama, in perpetuo v'amerò. E per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e così in ogni atto farne conto come di me, da quanto che io mi sia, e il simigliante delle mie cose. E acciò che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi riputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi che vi piacesse mi comandaste, che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubidisse. Adunque, se così son vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde: e sì come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell'anima mia, che nell'amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata, che vostro sono, che io dalla vostra pietà riconfortato possa dire che, come per la vostra bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita; la quale, se a' miei prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la coscienza, ve ne dorrebbe d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: ‘Deh, quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio!’ e questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione. Per che, acciò che ciò non avvegna, ora che sovenire mi potete, di ciò v'incresca e anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi più lieto, e il più dolente uomo che viva, dimora. Spero tanta essere la vostra cortesia, che non sofferete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro

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Argomenti: lungo tempo,    alto animo,    cheto frate

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