Decameron di Giovanni Boccaccio pagina 108

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io avessi cembalo io direi alzatevi i panni, monna Lapa o Sotto l'ulivello è l'erba; o voleste voi che io dicessi L'onda del mare mi fa sì gran male? Ma io non ho cembalo, e per ciò vedete voi qual voi volete di queste altre. Piacerebbevi Esci fuor che sie tagliato, Com'un mio in su la campagna?– Disse la reina:–No, dinne un'altra.– –Dunque,–disse Dioneo–dirò io Monna Simona imbotta imbotta, E' non è del mese d'ottobre.– La reina ridendo disse:–Deh in malora! dinne una bella, se tu vuogli, ché noi non voglian cotesta.– Disse Dioneo:–No, madonna, non ve ne fate male: pur qual più vi piace? Io ne so più di mille. O volete Questo mio nicchio, s'io nol picchio o Deh fa pian, marito mio o Io mi comperai un gallo delle lire cento?– La reina allora un poco turbata, quantunque tutte l'altre ridessero, disse:–Dioneo, lascia stare il motteggiare e dinne una bella; e se no, tu potresti provare come io mi so adirare.– Dioneo, udendo questo, lasciate star le ciance, prestamente in cotal guisa cominciò a cantare: Amor, la vaga luce che move da' begli occhi di costei servo m'ha fatto di te e di lei. Mosse da' suoi begli occhi lo splendore che pria la fiamma tua nel cor m'accese, per li miei trapassando; e quanto fosse grande il tuo valore, il bel viso di lei mi fé palese; il quale imaginando, mi senti' gir legando ogni vertù e sottoporla a lei, fatta nuova cagion de' sospir miei. Così de' tuoi, adunque, divenuto son, signor caro, e ubidente aspetto dal tuo poter merzede; ma non so ben se 'ntero è conosciuto l'alto disio che messo m'hai nel petto né la mia intera fede da costei, che possiede sì la mia mente, che io non torrei pace fuor che da essa, né vorrei. Per ch'io ti priego, dolce signor mio, che gliel dimostri e faccile sentire alquanto del tuo foco in servigio di me, ché vedi ch'io già mi consumo amando e nel martire mi sfaccio a poco a poco; e poi, quando fia loco, me raccomanda a lei, come tu dei, che teco a farlo volentier verrei. Da poi che Dioneo tacendo mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell'altre dire, avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo. Ma poi che alquanto della notte fu trapassata, e la reina, sentendo già il caldo del dì esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al dì seguente a suo piacere s'andasse a riposare. Sesta giornata FINISCE LA QUINTA GIORNATA DEL DECAMERON: INCOMINCIA LA SESTA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO D'ELISSA, SI RAGIONA DI CHI CON ALCUN LEGGIADRO MOTTO, TENTATO, SI RISCOTESSE, O CON PRONTA RISPOSTA O AVVEDIMENTO FUGGÌ PERDITA O PERICOLO O SCORNO. Introduzione Aveva la luna, essendo nel mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già per la nuova luce vegnente ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi, fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su per la rugiada spaziandosi, s'allontanarono, d'una e d'altra cosa varii ragionamenti tegnendo e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando e ancora de' varii casi recitati in quelle rinnovando le risa, infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi a riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare: per che, voltati i passi, là se ne vennero. E quivi, essendo già le tavole messe e ogni cosa d'erbucce odorose e di be' fiori seminata, avanti che il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole; e Dioneo insieme con Lauretta di Troilo e di Criseida cominciarono a cantare. E già l'ora venuta del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati erano dintorno alla fonte si posero a sedere; e volendo già la reina comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora adivenuta non v'era, cioè che per la reina e per tutti fu un gran romore udito che per le fanti e' famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco e domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il romore era tra Licisca e Tindaro ma la cagione egli non sapea, sì come colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina qual fosse la cagione del loro romore. Alla quale volendo Tindaro rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no e in sul gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:– Vedi bestia d'uom che ardisce, là dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me–, e alla reina rivolta disse:– Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di Sicofante e, né più né meno come se io con lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v'entrò paceficamente e con gran piacer di quei d'entro. E è ben sì bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno sì sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro stando alla bada del padre e de' fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quatro anni più che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono se elle s'indugiasser tanto! Alla fé di Cristo, ché debbo sapere quello che io mi dico quando io giuro: io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito, e anche delle maritate so io ben quante e quali beffe elle fanno a' mariti: e questo pecorone mi vuol far conoscer le femine, come se io fossi nata ieri!– Mentre la Licisca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre, e la reina l'aveva ben sei volte imposto silenzio ma niente valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che ella volle. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse:–Dioneo, questa è quistion da te: e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle, che tu sopr'essa dei sentenzia finale.– Alla qual Dioneo prestamente rispose:–Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro: e dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia come ella dice, e Tindaro è una bestia.– La qual cosa la Licisca udendo cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta disse:–Ben lo diceva io: vatti con Dio, credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi? Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no–; e, se non fosse che la reina con un mal viso le 'mpose silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se esser non volesse scopata e lei e Tindaro mandò via, niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere a lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle novelle desse principio; la quale lietamente così cominciò. 1 Un cavalier dice a madonna Oretta di portarla con una novella: e, mal compostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga. –Giovani donne, come ne' lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de' verdi prati e de' colli i rivestiti albuscelli, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti belli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. E il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che a' nostri secoli sia portata da' cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è la qual ne sappia ne' tempi oportuni dire alcuno o, se detto l'è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne; ma per farvi

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Argomenti: bel viso,    luce vegnente,    monte nero

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