L'amore che torna di Guido da Verona pagina 59

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riempirli, volendo che l'aiutassi. Vuotò i cassetti, dispose le biancherie sul letto, gli abiti a mucchi su le poltrone, le scarpe da un lato, i libri, le cravatte, i profumi dall'altro, poi, mettendosi a ginocchi dinanzi al baule aperto: — Mi darai le cose ad una ad una, — disse; — io le riporrò. La stanza era piena di sole; anche la coltre, i cuscini, gli abiti sparsi, le camice fresche di stiratura, i libri scompigliati, le boccette de' profumi, l'avorio dei pettini, le scatole, i gingilli, tutte le cose che si preparano a chi va via, tutto brillava, mandava una luce vivissima in quel giocondo sole. Ed i suoi capelli anche; i suoi capelli, quando si abbassavano verso il fondo del baule, traversando una striscia di sole, davano qualche lampo di straordinaria luce. Ella parlava naturalmente, come se fossi andato per un viaggio breve, e già, partendo, si pensasse al ritorno. Invece no. Partire per sempre, dirsi un'ultima volta, perdutamente, addio... sentire che dopo, che mai, quel bene sarebbe ricuperato. Non sapere più nulla, mai più nulla di ciò che avverrebbe all'altro; portare via negli occhi l'ultima, la più bella immagine dell'amore perduto. Partire: mettere tra l'uno e l'altra la lontananza e non l'oblio, l'ignoto e non la pace. Portare con sè un grave peso di desiderii non estinti, e sapere che la vita dovrà necessariamente continuare per entrambi, arida, squallida, come una terra devastata. E lentamente rievocare tutto il passato, le ore più dolci, le ore più tristi, e le vicende che si ebbero, le parole che si dissero, le promesse che furono scambiate, e sentir crescere nel profondo cuore una terribile disperazione muta... Poi un altro pensiero subitaneo, crudele, tagliente, come una lama ben affilata: «Ella era giovine ancora, bella, più bella di tutte... Necessariamente avrebbe appartenuto ad un altro.» La guardai. Stava un po' china sul letto, intenta a ripiegare con somma cura un abito mio che rammento ancora, di un color cenere quasi celeste, a sottili trame, un abito che indossavo sovente perch'era il suo preferito. Quasi ad interrompere il silenzio, le dissi: — Non riporre quell'abito; lo metterò per il viaggio. Ella sostò nel mezzo della sua faccenda, naturalmente, con un sorriso calmo su le labbra: — Questo vuoi mettere? Che idea! È troppo chiaro; ti si rovinerà. Stando così, un po' curva, con le mani poggiate su l'abito, la sua faccia splendeva interamente nella obliqua striscia di sole. — Che importa? — risposi. — Non è questo un abito che ti piaceva? Dunque bisogna sciuparlo. E così dicendo, le stavo di fronte, la guardavo, immobile, dall'altra parte del letto. Una piccola ruga fugace le si formò tra i sopraccigli; non rispose, finse di non aver udito e pose l'abito su la spalliera d'una seggiola. Portava un suo profumo leggero ed intenso, composto con essenze diverse, mesciute insieme, un profumo che rimaneva dietro lei, dovunque passasse, come una traccia soave. Tutte le cose sue, tutte le mie che avesse toccate, sapevano di questo profumo tenace; anche lontano, dopo la partenza, mi sarebbe sembrato di rivivere con lei. Il pensiero tornò, più vivo: «Ella era giovine ancora, bella, più bella di tutte.... Necessariamente avrebbe appartenuto ad un altro.» Con gli occhi un po' ebbri, che l'amore aveva resi esperti, mentre guardavo il suo corpo ed il suo grembo, vidi la camera dove si sarebbe data ad un altro, il letto, i suoi capelli disciolti. Una gelosia nuova, insana, mi torse lo spirito, ebbi la tentazione di gridarle forte: «Lascia quei bauli! Riponi le cose mie. Non parto più. Non ti posso, non ti posso perdere!» Ma invece tacqui; pensai ch'era una sciocca debolezza la mia, e che dovevo mostrarmi calmo quanto lei, per non parerle da meno. Sedetti sul letto, fra gli abiti e le biancherie, nel sole. Dall'altro lato, sopra un tavolino, in una grande cornice di pelle incisa a gigli d'oro, c'era un suo ritratto, bellissimo, con un ciuffo di violette appassite fra il vetro e la fotografia. Sul ritratto, in un angolo, queste parole scritte di suo pugno: «A toi toujours... — Hélène» E una data. Parole vuote in fondo, come tutte quelle che ricordano e promettono l'amore. Ma in quel momento mi parvero singolarmente piene d'irrisione; mi parvero quasi un'ultima, sottile ironia, nella eterna commedia del sentimento. Oh, l'amore, che dice «sempre» — che dice «mai», che misura le sue forze anche al di là dalla vita e sfida in bellissimi lirismi tutte le necessità caduche del nostro infedele spirito! Mi parve in quel momento ch'ella fosse la sola colpevole del nostro abbandono, e mi cacciasse da sè per darsi ad altri amori, vietandomi ormai per sempre i suoi baci, le sue carezze, il suo profumo, tutte le cose che avevo pazzamente amate in lei. Insieme tornavano le memorie, lente, calme, in una luce quasi di miracolo, fasciandomi l'anima d'un involontario bisogno di pianto. E rivedevo la straniera bellissima, dai capelli color dell'oro e del bronzo, ch'era venuta nella mia casa di Roma, una sera — una sera d'autunno — a bere una tazza di tè, davanti al fuoco, nella penombra di una sala ove bruciava, più della fiamma, il profumo dei fiori. «Povera casa! — pensavo; — la rivedrò fra qualche giorno, vuota, e forse non vi potrò più vivere per la memoria di quella sera d'autunno, di quel fuoco e di quei fiori....» A un certo momento ella mi venne presso, per cercar qualcosa, lì, sul letto, fra le biancherie. M'interruppe ne' miei pensieri e l'immagine viva si sovrappose a quella del mio sogno; la tentazione fu più forte che la volontà; rapidamente l'afferrai per i due polsi, attirandola fra le mie braccia. Ella strinse le labbra e cercò di sfuggirmi con una mossa repentina. — Perchè mi respingi? — le dissi. — Non vedi come soffro? Ella chinò il mento sul petto, chiuse gli occhi, divenne assai più pallida e non rispose. Mi restò vicino, abbandonandomi i polsi ed appoggiandosi appena contro le mie ginocchia. — Tutto questo non fa male anche a te? — le domandai, piano, attirandola. Ella scosse il capo, con un rassegnato cenno d'inutilità. — Credo, — soggiunsi, — che non potrò mai partire. Restò ferma, come se non udisse, come se non volesse udire. Ma le venne su le labbra quel suo particolare tremito, ch'era come il principio d'una parola non detta. Mi piaceva ripeterle ogni cosa più triste, per aumentare la sua tristezza e la mia. — Se partirò, — le dissi, — tu mi dimenticherai sùbito. Il tuo teatro, gli applausi, gli ammiratori, ti faranno scordare. Non sarò più ad attenderti nel tuo camerino; dopo il teatro non andremo più a cena insieme, non dormiremo più vicini.... Tutto questo è finito, finito... e sembra un sogno! Due gonfie lacrime le spuntarono su le ciglia; scivolarono giù, caddero. — Domani sera mi condurrai alla stazione, e sarà l'ultimo bacio... l'ultimo! Ci scambieremo dal finestrino un saluto rapido, come fanno tutti quelli che vanno via, noi, che siamo stati un essere unico. E ritornerai sola, ti guarderanno, diranno qualcosa dietro di te.... Bah!... questa è la vita. Non ci vedremo più, forse non mi scriverai nemmeno più. Ed anch'io piangevo, dolorosamente. Bisognava godere tutto il supplizio di un'ora così definitiva. — Guarda, — continuai; — le cose nostre avevano presa l'abitudine di stare insieme; ora bisogna scegliere, bisogna dire: «Questo è mio — questo è tuo.» E domani non troverai più le mie cravatte ne' tuoi cassetti, nè io qualche tuo fazzoletto fra i miei, qualche tuo nastro nelle mie scatole per i guanti. Spesso ti lamentavi perchè lascio le sigarette spente in ogni angolo. Non ne troverai più. La tua vita sarà più semplice, più calma, più libera. Ella barcollò un poco, non sapendo se lasciarsi cadere nelle mie braccia o rovesciarsi all'indietro; volle ridere, piangere, poi un forte singhiozzo le schiantò la gola, e scioltasi bruscamente dalle mie mani andò via di corsa,

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Argomenti: certo momento,    profondo cuore,    terribile disperazione,    sorriso calmo,    ruga fugace

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