L'amore che torna di Guido da Verona pagina 31

Testo di pubblico dominio

volta. Sempre, quando esco e torno, su l'uscio faccio questo pensiero. Mi sei così visibile, che vorrei tendere la mano per trattenerti. Quel giorno, credo che diverrò pazza. Mi domando qualche volta come ti ho potuto amare così. Ne rimango atterrita e non so comprendere la ragione. Talora, quando sento parlare di altre persone che amano, quando leggo nei libri le favole di altri amori, quando vedo l'abuso e la profanazione che si fa ogni giorno di questa parola, mi vien quasi una voglia di ridere... oh sì, di ridere disperatamente! Chiamano amore i loro capricci, amano e possono ridere, amano e possono vivere lontani, amano e possono pensare a mille altre cose nello stesso tempo! Ma chi di loro conosce veramente cosa sia questa orribile disperazione, l'amore?... «Senti: ho paura. Mi sembra che fra qualche giorno debba succedermi qualcosa di orrendo. La notte ho visioni angosciose. Vorrei sapere, sapere... tante cose che la mia povera testa non coordina più. «Domenica è la festa della zia: non dimenticarlo. Manda il solito mazzo di fiori. Mi scrivi che ve ne sono tanti a Torre Guelfa, è vero? M'avevi promesso di condurmi un giorno a visitare la tua casa e la gran Torre.... Invece, se non vi sono andata finora, non la vedrò forse mai, quella tua casa dalle stanze antiche, «dove si dorme come in un monastero.» Oh, se potessi giungere inattesa e sorprendere la tua vita! Essere la tua compagna, nella tua casa, per sempre!... Povero amore, come devi sorridere di queste mie parole! Tu hai ben altri pensieri. Mi scrivi che fra pochi giorni la maggior parte delle tue terre cadrà sotto sequestro. Ti rimarrà solo Torre Guelfa ed un piccolo pezzo di campagna «che si vede intero stando alla finestra». Povero amore! Perchè sono tanto ricca io, che non ho bisogno della ricchezza? E perchè non vuoi che t'aiuti? Ho il mezzo di farlo, almeno in parte, senza che nessuno lo sappia. Senti: anche se non dovessi mai più vederti, perchè non accetteresti? In qualsiasi giorno della vita, e comunque tu voglia, io sarò sempre tua.... Perchè non concedermi questa gioia? Tu hai bisogno del denaro, io ne possiedo molto e non so che farne. Era per te solo che mi piaceva esser ricca; ma ora, se non ti avrò... a che serve? Come tutto il resto: a che serve?... » A questa lettera non risposi: pensai che prima di sera, Fabio, recandosi a parlarle, avrebbe resa inutile una mia risposta. VI Seduta sotto la pergola di vite americana, Elena guarniva di fiori un suo cappello primaverile; io leggevo ad alta voce un libro del Taine, il suo Voyage en Italie, dov'erano pagine deliziose intorno al Convento di Montecassino. — Come vorrei visitare quel convento! — Elena mi disse allora. — Vi andremo, se lo desideri. Anzi vi resteremo qualche giorno. Quei frati sono albergatori squisiti e tengono un'ottima foresterìa. — Si può anche abitarvi? — Certo. Io vi sono stato già una volta. — E con chi? — Solo. — Via... non lo credo! In mezzo ai frati, e solo? — Di fatti avevo una compagna. Venne con me un'amica d'allora, una tedesca bionda come la birra. — E i frati? — Oh, i frati ne hanno l'abitudine ormai! In quel momento la domestica venne ad annunziare che Michele Rossengo era salito alla villa e domandava di parlarmi. — Fallo entrare in sala e digli che ora vengo sùbito. Michele Rossengo era un pingue villano, arricchitosi con mezzadrìe di terreni e con usure nei mercati. Ritiratosi dalle faccende coloniche, ambiva ora le cariche cittadine, pronto a qualsiasi espediente pur di giungere a' suoi fini. Era più che cinquantenne, alto, corpulento, con un viso abbronzato in cui scintillano due malvagi occhi ambigui, e sorrideva di continuo come un uomo intimamente soddisfatto di sè. Quando entrai nella sala, mi venne incontro tendendomi la mano. Si tradiva dal suo contegno l'insolenza ingenerosa dell'uomo di volgo il quale, per un suo diritto, si senta forte contro il padrone. — Dunque, signor conte, bisognerà intenderci una buona volta! — egli disse, entrando sùbito nell'argomento e piantandosi a gambe larghe dinanzi a me, con le mani in tasca, mentre vi faceva tintinnire un mazzo di chiavi ed alcune monete. Uso a comandare nella sua casa e nelle osterie dove lo corteggiavano i suoi loschi faccendieri, egli parlava in tono altezzoso, facendo con le labbra un atto ch'era singolarmente ironico. — Sono pronto a ragionare con voi, caro Michele, — gli risposi con voce lusinghevole, avanzandogli una poltrona. — Ah?... ragionare? Sempre ragionare e pagare mai! — esclamò l'uomo, sedendo. E rise d'un riso villano che gli gonfiava la bocca e le vene del collo. — Mi sembra, caro Michele, che siate oggi di cattivo umore. Prima d'incominciare la discussione vi offrirò un bicchierino di quell'acquavite vecchia d'ottant'anni, alla quale non fate mai cattiva cera quando venite quassù. — Ci vuol altro che acquavite ormai! Buoni da mille ci vogliono, signor conte! — m'interruppe il Rossengo, fra il serio e il faceto, mentre io gli mettevo davanti la bottiglia preziosa e ne versavo due bicchierini colmi. Intanto, soffiando e bofonchiando, egli traeva da una tasca recondita un grosso fascio di cambiali, avvolte in un rogito notarile, e se lo batteva sul palmo della mano. — Che fate ora? Mettete via quelle porcherie! — lo esortai ridendo. — Non dátemi altre seccature, chè ne ho già troppe in questi giorni! Egli posò le cambiali su la tavola, vi diede sopra un gran pugno e tracannò l'acquavite d'un sorso. — Ah, le chiama porcherie, lei? Questa è buona! — diss'egli facendo schioccare la lingua contro il palato esperto. — Buona anche l'acquavite, non c'è che dire! Ma insomma, lasciando le chiacchere, me le paga o non me le paga, stavolta? Perchè ormai siamo vicini alla scadenza e non si tratta più che di pochi giorni. E bevve un altro sorso dal bicchierino che gli avevo riempito. — Sentite, Michele, — risposi con voce persuasiva, — mi conoscete ormai da un pezzo e proprio non sarebbe il caso di farmi un'angheria. Vi ho pagato sempre, vi pagherò anche stavolta, per bacco! — Bah, ci sono due settimane ancora... Veda un po' lei, si regoli per quel giorno, — replicò il Rossengo, scotendo la sua testa caparbia. — Via, non fate minaccie inutili! Fosse una cifra da poco, lo capirei; ma una somma simile non la si mette insieme in quindici giorni, lo sapete bene. — L'ho pur dovuta mettere io quando gliel'ho data, mio buon signore! Adesso me la faccio rendere; non sono che nel mio diritto. — Oh, voi, si capisce! Siete un uomo che tenete i vostri affari molto in ordine, avete il denaro facile, così facile che a Terracina tutti quanti vi salutano come un piccolo re. Mentr'io sono, viceversa, il disordine in persona. Quando si avvicinano le scadenze, devo sobbarcarmi ad una fatica sovrumana per far tacere i più esosi. Con voi, Dio buono, ci si conosce da tanti anni, e, vi dico la verità, finora non ci avevo neanche pensato. — Sì, sì, a maraviglia! Lei parla bene; ha la parola facile. Se le cambiali si pagassero così, con un bel discorso fatto a quattr'occhi, non ci sarebbe che dire! Ma io, vede, non la penso a questo modo. Io, questa volta, signor conte, per quanto mi dispiaccia, e sappia che lei è un buon giovine, questa volta, le dico, se non mi paga il giorno preciso, vado difilato in città e gliele protesto l'una dietro l'altra, tante quante sono! — Caro Michele, voi avete troppo cuore per usarmi una sgarberia simile! Oggi siete lunatico e sarebbe stato meglio se foste venuto un altro giorno. — Eh, no, sa! — egli rispose ironico. — In queste cose la penso tutti i giorni allo stesso modo. Non lo faccio per cattiveria, mi creda. Ma in questo momento, su la mia coscienza, ne ho bisogno e non potrei davvero transigere nemmeno con un figlio. Resteremo amici lo stesso, ma preferisco mettere le cose in regola. Era dunque inutile che gli continuassi a versare bicchierino su bicchierino dalla caraffa già vuota

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Argomenti: piccolo pezzo,    resa inutile,    troppo cuore,    solito mazzo,    qualsiasi giorno

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