L'amore che torna di Guido da Verona pagina 14

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voce che sibilava: — Non puoi credere questo! — affermò. — E bada che sopporto le tue parole solo perchè non credo che tu le pensi. — Ma dunque spiégati! — esclamai con ira. — Cosa può immaginare un uomo in questo caso? — Naturalmente... — Spiégati, Elena. Finisci di farmi soffrire! — Rispàrmiami questo! — ella pregò sordamente; — poichè ti giuro che vi sono andata per una causa del tutto diversa da quelle che puoi supporre tu. E non l'ho nemmeno trovato. Lasciami tacere. — Impossibile, Elena. Vorrei poterti accontentare, visto che me lo chiedi, ma, dopo, non me ne darei pace. — Te ne supplico, Germano, lasciami questo piccolo segreto. E' una cosa che mi offende, che mi ripugna... I suoi occhi brillavano stranamente, le sue mani congiunte tremavano. — Come vuoi tu! Sei anche libera di non dirlo, — risposi duramente. — Ebbene, lo vuoi sapere? — esclamò con veemenza, quasi gridando. — Bada che, dopo, forse ti odierò!... ti odierò perchè mi umilii troppo... Lo vuoi sapere? Io tacqui, gelido. — Come sei perfido! perfido! Ecco, te lo dico. Sono andata per chiedergli denaro, perchè a lui... non importa! Ma non mi voglio vendere a te!... a te no! Volevo amarti senza vergogna, come un'amante vera... Ecco: adesso lo sai! Gettava le parole come altrettante lame, con le labbra che fremevano, livida. — Tu hai fatto questo, Elena?... — esclamai con un tremante rammarico, afferrandole una mano. — Perdonami dunque, mio povero amore! — Làsciami! làsciami! — ella comandò, svincolandosi con forza. — Sì, ho fatto questo per te!... ho fatto questo, io! E v'era in quel suo monosillabo un'alterezza di regina. IX Più tardi nella silenziosa notte, Elena mi aveva raccontato la storia della sua vita. Ed era una storia ben triste per una così bella creatura. Mi narrava con malinconia le memorie dell'infanzia felice, nella tranquillità un po' severa d'un castello ungherese, dov'erano accolte le ricchezze di una lunga discendenza. Per quanto lontano ella tornasse con la memoria, non poteva rivedere la madre se non sotto le sembianze di una giovine signora dagli occhi soavemente pensierosi, che, muta, con libro su le ginocchia, passava lunghe ore solitarie in una sala troppo vasta per lei, o succinta in abito d'amazzone scendeva presso i cancelli d'un grande parco secolare, mentre gli staffieri le imbrigliavano un cavallo grigio, dalle narici vive come lo scarlatto, con la criniera e la coda simili a due copiosi rami carichi di neve. Il padre dimorava raramente nel castello, ed aveva per la moglie una devozione che pareva nascere da un profondo rimorso, anzi aveva per lei una specie di religioso amore. Ma ogni volta ch'egli tornava dalle frequenti assenze, avveniva molto spesso ad Elena di trovar sua madre tutta in lacrime nell'angolo di una sala, più spesso, poichè dormivano accanto, di udirla piangere nel silenzio della notte. Egli amava con passione la musica, e suonava divinamente il violino, la sera, in una stanza chiusa, per lunghe ore continue. Ella e sua madre lo ascoltavano dalla sala vicina, in silenzio. Un giorno, dopo una sua più lunga assenza, lo portarono morto al castello due grandi uomini sconosciuti, che tristemente accarezzarono la sua testolina di fanciulla. Sua madre la condusse a baciare il cadavere, poi mise un abito nero, e da quel giorno, per lunghi mesi, non parlò quasi mai, divenendo malata. Le disse ch'era morto in viaggio; ma più tardi ella seppe, nell'ascoltare i discorsi dei domestici, ch'era stato ucciso in duello. Poco tempo dopo il castello era venduto. Vennero genti nuove, che portaron via i mobili, i quadri, gli arazzi, le armerie, i cavalli: tutto. Una mattina sua madre, pallida e pur sorridente, la condusse per tutte le stanze, per i piantereni e per le scuderie, le mostrò l'intero dominio, quasi per bene imprimere nel suo cuore la memoria d'ogni cosa, poi, quando furono in fondo al giardino, presso una fontana, ch'ella rivedeva sempre, le disse con voce tranquilla: — Tutto questo non ci appartiene più, Elena. Siamo povere adesso e dovremo partire. Un signore le accompagnò, che veniva sovente al castello. Si chiamava Franz von Hohenfels ed era prussiano. Andarono a Parigi; con l'ultimo denaro arredarono tre piccole stanze in un quartiere eccentrico; vissero nei primi tempi di quello che la madre guadagnava traducendo novelle, romanzi e poesie dall'ungherese, o copiando, se il bisogno urgeva, le tesi dei medici ed i memoriali degli avvocati. Allora quella donna malata, che pareva solamente reggersi per un miracolo di energia, si rivelò agli occhi della figlia sotto una luce quasi eroica. In lei viveva un'anima nascosta, capace delle più grandi rassegnazioni. Elena, a quel tempo, non aveva che sedici anni, e curava le cose domestiche, aiutando la madre, leggendo a voce alta i suoi libri e ricopiando i suoi manoscritti quando i poveri occhi stanchi non vedevano più. Talvolta la madre dettava, e dettando le spiegava ogni cosa, la iniziava lentamente alla sua vasta cultura, dandole un piacere caldissimo per le cose dell'arte. Quando i guadagni divennero più lauti, ella fece seguire ad Elena qualche lezione alle cattedre pubbliche, preparandola man mano ella stessa per un esame d'istitutrice che il suo pronto ingegno superò senza fatica. Alcuni amici venivano a visitarla talvolta e spesso quel Franz von Hohenfels che alla morte del padre assunse la tutela di Elena. Innamoratissimo della madre, aveva tentato per lungo tempo d'indurla suo malgrado a seconde nozze; ma Elena preferiva la miseria, purchè sua madre rimanesse a lei, a lei sola, in quella piccola casa di Montmartre, di fronte alla chiesa del Sacro Cuore, dove i tramonti su l'apoteosi della città incendiata erano così divinamente belli. Dopo qualche tempo l'Hohenfels finì con rinunziare a questo progetto e le sue visite a Parigi furon meno frequenti, finchè cessarono del tutto. S'era più tardi ammogliato in Germania, e solo scriveva di quando in quando per domandare notizie con freddissima urbanità. Ma vennero i tempi tristi; la madre ammalò, fors'anche di stanchezza; il lavoro le divenne impossibile, il denaro mancò. Era d'inverno e tutto scarseggiava, la luce, il fuoco, il pane, in quelle tre camere taciturne dove una donna di trentasette anni ed una fanciulla di diciotto erano sole a difendersi contro la vita. Allora fu per Elena una corsa pazza lungo le vie di Parigi, ad ogni porta, ad ogni scala, in cerca di lavoro, di un qualsiasi lavoro che desse una tazza di brodo per la madre malata, che desse la legna per accendere un po' di fuoco la notte, quand'ella tremava, scarna, sotto la coltre, vaneggiando. Per molte settimane, perchè non le portassero la madre all'ospedale, Elena fece ogni umile mestiere: praticò le scuole delle sarte, ricamò le iniziali delle biancherie, vendette nei negozi, assistette malati, rispose agli annunzi dei giornali, si trascinò per ogni agenzia, fu da ultimo la modella di un pittore. E questo giovine che la vide così bella e così triste, invece di offenderla, ebbe del suo dolore una fraterna pietà. Povero, volle offrirle qualche soccorso, la confortò, venne a visitare la madre. Ungherese di nascita egli pure, — (e per questo Elena v'era andata) — si chiamava Mathias Bunko ed era minato da una inguaribile malattia. Tacitamente il giovine si accese di un disperato amore per lei; quell'amore sublime delle anime che sentono la morte vicina. Mathias andava in cerca di lavoro per lei come per una sorella; poi, la sera, non potendo recare di meglio, portava un cordiale per la malata, un succo di carne per sostentarla, un giornale che la divertisse, un fiore. Aveva una bella fronte pallida, la bocca femminea, la voce soave. Parlava dell'Ungheria lontana, de' suoi giorni d'infanzia, de' suoi sogni d'arte; voleva, quando la madre fosse guarita, fare un grande quadro di Elena, esporlo, giungere rapidamente alla fama, — rapidamente poich'egli aveva dinnanzi a sè

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Argomenti: lungo tempo,    sala troppo,    grande parco,    castello due,    pronto ingegno

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