L'amore che torna di Guido da Verona pagina 21

Testo di pubblico dominio

lontano sogno quell'ultima scena del loro commiato, nella camera disadorna, che il sole giocondamente incendiava. E rivide la pallida sembianza, in un angolo, accasciata sopra un baule, con gli occhi sperduti, che la inseguivano senza posa, come per esprimerle in un disperato silenzio tutta l'angoscia che passava nell'anima del morituro. Poi se lo figurò morto, immobile sopra una coltre, senza lacrime accanto nè ghirlande, solo nel trapasso come in vita fu solo, con le labbra suggellate nello sforzo di chiamarla per nome. Immaginò il dramma di quell'ultima ora, quando il rantolo affannò la sua gola e negli occhi evadenti fu adunata in perpetuo la visione finale del mondo, come un baleno inconoscibile di sole, mentre l'anima varcava nell'assoluto nulla, verso la pace inconsumabile di tutte le miserie umane. Allora le parve che in quel punto egli avesse dovuto maledirla, e ne tremò. Volle correre, correre, per salvarlo ancora... Oh, quel viaggio lungo, per giornate senza sole e notti senza sonno, avvolta in una ridda spaventosa d'ombre, come nell'incubo di una vigilia funebre... Poi quell'arrivo, nella mattinata piovigginosa, con la visione man mano più certa, più prossima del cadavere; la corsa per le strade, la facciata impassibile dell'ospedale, il domandar concitato ai medici, e la risposta breve, recisa... il passaggio per lunghi anditi ove i malati gemevano confusi, e per ultimo, in una stanza paurosa, fra il vacillar de' cerei, un grande lenzuolo bianco sopra una forma irrigidita, e lo scoprirsi di un volto che più nulla conservava di umano, tranne l'orribile segno dell'agonìa. Povero Mathias!... La sua tragedia era finita: in quel morto cuore ella non palpitava più. E lo baciò su la fronte raggelata, e camminò dietro il suo feretro quando lo portarono a riposare per sempre, a scomparire per sempre, a distruggersi per sempre nella tacita solennità della terra. Le diedero una lettera, ch'egli aveva scritta per lei negli ultimi giorni, quando fu conscio della sua fine. Era quasi un poema d'amore dall'oltrevita, nelle ultime pagine diceva: «Tu non puoi figurarti, Elena, la dolcezza che io proverò nel chiudere gli occhi per sempre; poichè nella morte finiscono i desiderii assurdi, finisce la necessità umana di credere, di pensare, di amare... Viene un riposo per il quale non si è fatta la parola, e sembra che si godrà in perpetuo quella gioia che nel mondo consiste in un solo attimo incosciente: la gioia del dimenticare. Ma vorrei, se mi fosse lecito, portare con me il quadro dove ti ho dipinta. Elena, per guardarti ancora e sempre, anche dopo la vita. È la sola felicità che mi venne concessa, e morendo mi rammento come in un sogno tutte le ore così dolci nelle quali ti ho potuta guardare. La mia memoria umana comincia e finisce con te...» Elena chiuse gli occhi e non potè legger oltre. Ora il morto le stava presso, a ripeterle con una voce lenta il suo triste poema d'amore. In un'altra lettera Mathias le lasciava in eredità i suoi quadri ed il suo piccolo avere, pregandola di vender ogni cosa, tranne il suo ritratto, perchè potesse imprendere finalmente la via sognata e nulla dovesse ad alcuno, fuorchè all'amico scomparso. Per molti giorni ella rimase in balìa d'una sconsolatezza profonda, e passò lunghe ore in lacrime su la tomba dov'egli dormiva. Solamente allora si accorse di averlo veramente amato, come un fratello, più che un fratello, ed il rimorso non le dette mai pace. Da ultimo Elena fece donare i quadri ad un Museo, tornò ad abitare presso la signora Bergmann, ed appese il gran ritratto che le aveva dipinto Mathias alla parete della camera ove s'erano abbracciati per l'ultima volta, rifiutando le somme vistose che i mercanti offrivano per quella tela, mentre i giornali, encomiando la donatrice dell'altre opere, parlavano assai dell'artista ch'era morto su l'inizio della celebrità. Verso quel tempo il Duvally venne a Berlino, e l'andò a trovare. Sempre gaio, frivolo, sicuro di sè, diceva di non averla mai dimenticata un momento, e gli pareva «di ritrovarla più bella ancora, più matura per i trionfi della scena». Raccontò ch'era in discordia con l'Hohenfels appunto per causa di lei; tessè molti epigrammi, ne risero insieme. Da Berlino egli doveva recarsi a Vienna, indi a Roma ed altrove, per essere di ritorno a Parigi sul principio della nuova stagione teatrale. Voleva, per quel tempo, che vi andasse ella pure. — Non tardate oltre, — soggiunse, — perchè un mese di gioventù perduto è più difficile a ricuperarsi che molti anni di vecchiaia. E partì. Veniva l'estate. L'Hohenfels andò in campagna, dopo averla invitata seco più volte; la baronessa von Ritzner era su le montagne dell'Engadina, malata di cuore: le scriveva le sue sofferenze, pregandola di tornare con lei. Allora Elena si comandò molti abiti, rifece i bauli, coperse gelosamente il quadro di Mathias, lasciandolo in custodia della signora Bergmann, e partì per l'Alta Engadina. La baronessa era deperita molto; le crisi al cuore in pochi mesi l'avevano sensibilmente invecchiata. Il riveder Elena le dette una grande gioia, e parve che traverso il dolore nascesse nel suo sentimento una purità quasi materna. Fra gli amici della baronessa era un giovane ufficiale austriaco, Max von Schillenheim, ch'era il più temerario alpinista ed il più famoso guidatore di quadriglie che annoverasse in quella stagione la società cosmopolita di Saint-Moritz-Bad. Poco più che ventiquattrenne, alto, smilzo, con i capelli d'un biondo brunito, gli occhi limpidi, piaceva subitamente per la grazia del sorridere e per la spigliatezza de' suoi modi. Parlava con brio, corteggiava molto le signore, i suoi modi eran fini ed attraenti, aveva nella sua maschia bellezza quasi un'ingenuità di fanciullo. Anche ad Elena faceva la corte, in modo piacevole. Da prima ella ne rise, poi se ne compiacque. Non era nè irriverente nè sciocco; le parlava d'amore fra un discorso e l'altro, facendola molte volte arrossire. Poi avvennero varie cose. Avvenne ch'egli entrava sempre nella sala di lettura quand'ella scriveva o leggeva; ch'ella prese amore al tennis, ed ogni mattina per lunghe ore giocarono insieme; che v'eran nel giardino molti viali profondi, e pinete di là dal giardino, dove ci si perdeva... che ogni giorno egli era più timido e più ardente insieme; che avevano le camere, quelle pericolose camere d'albergo, sul medesimo piano, ed eran quasi di fronte... E molte cose avvennero inoltre, anche nel cuore di questa errante fanciulla, cui troppi desiderii altrui, torbidi e tenaci, avevano già irritato i sensi; ed avvenne che le due bocche giovini, più volte, con stordimento, s'incontrarono, ed una notte che il cielo terso dell'alta montagna brillava d'infinite stelle, nell'ombra, nell'oblìo d'un'ora, ella imparò paurosamente l'amore. La stagione finì. Max von Schillenheim tornò al suo reggimento; Elena e la baronessa, che peggiorava sempre, andarono a Bad-Homburg, dove i medici le consigliarono di tornare a Berlino per affidarsi ad uno scienziato di grande fama, che le avrebbe forse dato ricovero nel proprio Istituto. Così fecero. Per un mese ancora Elena l'assistette, indi, poichè le sue cure non bastavano più, medici ed infermiere presero il suo posto, e la baronessa si risolse a lasciarla partire, colmandola di benefici e di doni. Allora Elena decise finalmente d'essere attrice. L'Hohenfels le offerse di patrocinar la sua carriera, però a patto che non dovesse mai, per alcun motivo, rivolgersi al Duvally; ed ella, senz'accettare nè rifiutare, partì frattanto per Parigi; dicendogli che in séguito gli avrebbe scritto. I luoghi della sua giovinezza le dettero al cuore una commozione profonda; ma ora vedeva sotto una luce nuova questa libera e splendida città del piacere, dove nell'aria stessa trema una vibrazione di vita che assilla i desiderii ed esalta i sogni fino al tormento. Cercò, sola dapprima, d'iniziarsi al teatro; ma tosto vide

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Argomenti: lontano sogno,    visione finale,    baleno inconoscibile,    pace inconsumabile,    facciata impassibile

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