L'amore che torna di Guido da Verona pagina 36

Testo di pubblico dominio

vedeva cavalcare al Bosco in compagnia di signore parigine o forestiere. Prediletto nella società galante, spendeva senza parsimonia, con aristocratica eleganza: doveva essere terribilmente cinico dietro la sua maschera d'impeccabile gran signore. Elia d'Hermòs, mi rammentava un poco il tipo di Fabio Capuano, e forse questa fu la prima ragione della nostra dimestichezza. Molte sue frasi, molti suoi motti arguti, eran divenuti proverbiali su la bocca degli amici, ed i suoi concetti morali non erano precisamente quelli che avrebbe potuto sottoscrivere un padre Labourdonnais. Ma egli possedeva in massimo grado quel bel dono degli avventurieri, e cioè la simpatia suggestiva, il coraggio sfacciato di professarsi apertamente per un essere amorale, con l'abilità insieme di ravvolgere la propria persona in un velo di mistero seducente, e di trattar la vita come una burla, cosa che piace ai meno forti. Parigi si rammentava di averlo veduto, molti anni addietro, avere un duello terribile con un addetto diplomatico di gran famiglia, il quale era rimasto sul terreno con la gola trafitta. E Parigi non dimentica mai un bel gesto. Altri sapevan qualcosa intorno all'oscura amicizia che fino alla morte professò per lui la famosa Duchessa di Lezières, questa Saffo impenitente, che non si peritò di chiudere la sua magnifica vita di depravazione con una frase rimasta celebre: — «Fra me e mio figlio abbiamo possedute le più belle donne di Francia.» Così pure non lo danneggiò l'esser stato il confidente e quasi l'«alter ego» di Casimir Pleyel, il ministro speculatore, che fallì con un disavanzo di parecchi milioni e chiuse gli occhi al penitenziario. L'essere stato il suo braccio destro non gli nocque nell'opinione di alcuno, e neanche del Codice, perchè, all'imminenza dello scandalo, subodorando il vento infido, egli ebbe l'accortezza di provocare una rottura clamorosa con il suo complice e la prudenza di allontanarsi proprio al momento in cui si scatenavano le ire dei colpiti. Ora i bei tempi erano passati; la Moda, quella bizzarra divinità cui Parigi pagana avrebbe eretto il più gran tempio dell'orbe, si era un poco distolta da lui, trovandolo forse invecchiato. Lo lasciava prosperare tranquillamente, senza ingerirsi de' fatti suoi, come un trastullo d'altri tempi che ancora si tolleri per riconoscenza. C'incontrammo una sera, in uno di quei balli di Montmartre dove impazza il perpetuo carnevale dei gaudenti, e sebbene in passato la nostra conoscenza non fosse stata gran che intima nè duratura, egli mi ravvisò prontamente e venne a parlarmi con disinvolta cortesia. — Vi sapevo a Parigi, — mi disse, — poichè vi ho veduto in teatro poche sere or sono. Non mancano da noi le belle donne, ma voi ne avete condotta una in fede mia rarissima! Vostra moglie forse? — No, — risposi evasivamente — non è mia moglie. E voi, sempre a Parigi. — Ormai mi ci son quasi radicato. Viaggio di tanto in tanto, ma poi sento la nostalgia di questa furiosa baraonda, e vi ritorno. Dunque cosa fate di nuovo? — Bah?... vegeto semplicemente! Mi sento invecchiare con delizia e guardo gli altri vivere. — Non dev'essere una occupazione faticosa! — No, di fatti, ma interessante. C'è in tutto e in tutti un lato comico; il poterlo scoprire è cosa che diverte assai. — Tuttavia non rinunziate ai piaceri di una volta, come vedo. — La verità è questa: soffro d'insonnia, non mi riesce di chiuder occhio prima dell'alba, ed allora, due o tre volte per settimana, seguendo un'abitudine inveterata, giro qua e là per la Parigi notturna, continuando a trovar poco interessante questa maniera di vivere, che in fondo è stata sempre la mia. Si bevve una coppa di Sciampagna, indi uscimmo insieme. Mi stupiva un poco l'interesse ch'egli pareva prendere a tutte le cose mie, ponendomi, senza farne le viste, una infinità di domande accorte. Parlava molto, parlava troppo, ma dietro i suoi discorsi briosi era sempre un filo recondito assai difficile a seguire. Non credendo necessario nasconderlo, raccontai ch'Elena voleva darsi al teatro e frequentava la scuola dell'attrice Grévier. — Oh, — mi disse, — io conosco assai bene la Grévier! — (E chi non conosceva egli dunque?) — Se volete, potrò interessarmi un poco a questa persona che vi è cara. Accettai sommariamente, come si accetta sempre. E poichè, ogni volta che nel discorrere si citava il nome di una persona, egli soleva tesserne la biografia, dovetti conoscere anche quella di Jeanne Grévier. — Per essere figlia d'un panettiere, — cominciò il d'Hermòs, — ha fatto una bella carriera! Sapete: la Francia democratica è il vero paese dove si può dire che la luce venga dal basso. A vent'anni ebbe un processo, perchè sorpresa dalla Polizia in un teatro clandestino, dove agiva interamente nuda, rappresentando certe scene plastiche d'un verismo inaudito. Vi sono anche oggi questi teatri. Se vorrete vi condurrò. Ma, tornando alla Grévier, quel processo fu la sua fortuna. Dal teatro plastico alla Porte Saint Martin, alla Renaissance, al Gymnase, alla Comédie Française, fu per lei tutto un volo, ed un bel volo, con in mezzo qualche avventura di un sapore non comune. Si sa, per esempio, ch'ella passò una intera notte in camicia, chiusa fuori su la terrazza di Gauthier Botrel, questo ardente menestrello meridionale che aveva un suo particolar modo di farsi amare dalle donne e di farsene pagare i debiti. Nel suo camerino v'era un divano celebre, sul quale andò a sedere tutto l'Almanacco di Gotha, e più celebri ancora furono i suoi tre gatti soriani, che dormivano accovacciati ai piedi della sua coltre, anche nelle notti di ricevimento. — Voi siete un terribile iconoclasta, mio caro d'Hermòs! — esclamai ridendo. — Sotto la vostra implacabile scure, beato chi salva la testa! — Credete veramente che valga la pena di lasciar in piedi gl'idoli, quand'essi non sono per lo più che abili ciurmatori della buona fede altrui? Tutta la vita non ho fatto che osservare; adesso, qualche volta, mi credo lecito un giudizio. Poi sappiate questo: l'ammirazione che si ha per altri è una debolezza che si riconosce in noi. — Può darsi. Ciò che voi dite ha sempre il dono di parer vero. — E tanto basta. Il vero ed il falso non sono che apparenze affatto superficiali. La nostra vita moderna è in fondo una convenzione messa in vigore da uomini rapaci e timidi. Si traversa un'epoca di abbruttimento, si fa uno sforzo enorme per dare alla vita quei pregi che in altri tempi la vita offriva spontaneamente. L'umanità è grottesca perchè si dà l'aria di aver superata la propria natura ed ostenta la convinzione di stare manipolandosi qualche prodigioso destino. Invece non si accorge ch'essa è ciecamente vittima delle stesse fatalità, degli stessi pregiudizi e delle stesse ciurmerie di una volta. — Che poca stima nutrite per il vostro prossimo, mio grande filosofo! — Il prossimo!... Ebbene se io vi dicessi che son sempre vissuto a gabbo e ad ufo di questo mio famoso prossimo, e che, pure maltrattandolo, sfruttandolo, deridendolo in mille guise, l'ho trovato sempre d'una bestialità così plateale da non meritarsi nemmeno la mia compassione? Questo prossimo di cui parlate è appunto la forza che impedisce all'uomo l'uso della sua piena libertà; è l'anonimo che ne giudica le azioni, ne crea la fama, ne insidia la pace, con una curiosità ed una malignità così perfide, quanta non potrebbe mettere in opera il più scaltro agente di polizia sguinzagliato alle calcagna d'un reo. E di questo animale dannoso, che ha tutti gli istinti spregevoli della bestia umana senza possederne il più mediocre merito, perchè mai si dovrebbe avere pietà? — Forse perchè noi tutti, a nostra volta, siamo esseri deboli e possiamo un giorno o l'altro aver bisogno del compatimento altrui. Tutto nella vita è un dare ed un rendere. — Non siamo ancor abbastanza amici perch'io possa dirvi il mio parere su questi argomenti. Ma lo

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Argomenti: braccio destro,    filo recondito,    sforzo enorme,    coraggio sfacciato,    duello terribile

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