L'amore che torna di Guido da Verona pagina 24

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negli occhi, signora mia! — esclamò Lazzaro, interponendosi. — Poi è tutta schiuma e vi sbaverà sui guanti. Date a me, signora. Elena, che non poteva ben intendere quel parlare di Lazzaro, mi guardò sorridendo; poi si tolse il guanto e porse il palmo nudo alla froge della balzana, che allungava il collo golosamente. — Ecco, signore, — disse il gastaldo; — se voi salite, io la tengo ben forte. Quando avrete in mano le redini, salirà la signora vostra. Diede un urto al ragazzotto e prese la briglia in sua vece, continuando a scuotere il morso e parlar sottovoce per ammansire la cavalla impaziente. — Brava, la bella! Non le fate vedere la frusta, signore. Brava, la bella! Oh, la bella!... Quando fui salito, lasciò la briglia, si tolse il cappello di feltro piumato e porse la mano ad Elena perchè vi si appoggiasse nel mettere il piede sul montatoio. — A rivederci, Lazzaro! — salutai, quand'ella fu seduta. — Buon viaggio, signore. Andrete come il vento. Non le fate vedere la frusta. Buon viaggio! E scendemmo verso il cancello aperto, per il viale a pergolato. Il barroccio era senza freno, la strada molto ripida sul declivio della collina; dovevo tendere tutti i muscoli delle braccia per contenere la foga della cavalla, che sentiva il veicolo troppo leggero per la sua possa impetuosa. Quando fummo nella pianura, oltre il villaggio, e la strada comparve sgombra per una lunga dirittura fra le campagne abbondevoli di frumento ancor verde, le concessi le redini, e la cavalla, con la testa al vento, la criniera ondeggiante, prese una corsa immoderata, fendendo l'aria sonora e comunicando al barroccio i suoi trabalzi. — Hai paura? — domandai ad Elena, guardandola sotto il vento che fischiava. — No, no, — ella fece, posandomi una mano su le ginocchia, mentre con l'altra si teneva l'ala del cappello. — Mi piace volare così! — E gentilmente sorrideva dalla faccia china. Non si udiva intorno alcun altro rumore che lo scalpitar precipitoso delle zampe gagliarde sul terreno battuto e l'ansito della cavalla che scattava inebbriandosi di rapidità. Passavano via le campagne vedute a volo; i pioppi equidistanti parevano inseguirsi l'un l'altro in una fuga opposta, come sbarre di un enorme cancello. — Gesummaria! — udimmo gridare da tre donne, che sbigottite insieparono. Più oltre, nell'incrociare un immenso carro di erbe falciate, gli uomini che v'eran sopra coricati gridarono e risero. Fu, nel vento, un'eco. Giunti ad una svolta, rattenni e dominai forte la cavalla, che prese un'andatura meno veloce, mandando fumo dalle narici e dal pelo trasudato. — Che fuga! — esclamò Elena, traendo un lungo respiro. E si volse a guardare indietro. La strada passava ora per mezzo ad un terreno alluvionale, onduloso da un lato di leggerissime colline, che infinitamente si perdevano allo sguardo, laggiù, verso il promontorio di Monte Circello, dove un lontano semaforo si delineava nella trasparenza del cielo. Poi comparve, tra i due canali di Torre Sant'Anastasia e di Torre Canneto, il paludoso eremitico lago di Fondi, memore delle materne Pontine, e dietro il lago vedevamo le gole selvose delle montagne addossarsi, per scendere parallelamente incontro al mare. Poi comparve, sul versante d'una collina bianca di sole, il convento francescano dei Frati Zoccolanti, e d'un tratto, all'uscir da una folta cortina di boscaglie, il Tirreno indolente, che oscillava davanti a noi, radioso e glauco sotto la curva del cielo. Di fronte si apriva l'anfiteatro delle isole di Palmarola Ponza e Ventotene, constellate all'intorno da un navigar lentissimo di vele, che, adagiando il fianco su la brezza, ad una ad una si perdevano verso i remoti valichi dell'orizzonte. Magnifica e piena di sole, su la roccia calcarea che Orazio vide «brillar da lunge», Terracina di San Cesareo dalle dieci colonne sedeva sotto il poggio falciato, soreggendo i rovinosi archi del suo Tempio a Venere, dove, nella cella votiva, rimane un piedestallo senza dea. La città marmorea, sotto la luce del pomeriggio primaverile, splendeva sollevata nella gloria di un incendio immateriale, come se la sua pietra esalasse un respiro fatto di luce, un vapore impalpabile, quasi un velo pieno di scintillamenti, che andasse man mano rarefacendosi, attenuandosi, diventando azzurro come l'aria o verde come l'acqua, in lenti circoli spaziosi verso il cielo e verso il mare. — Guarda, — io dissi ad Elena, segnando nella distante onda l'apparir confuso di Ventotene, — vedi quella piccola isola, nel fondo, laggiù? — Vedo, — ella rispose, facendo schermo della mano agli occhi per meglio discernere. — Quello scoglio — ripresi, — è sorto dal mare con un tragico destino. Divenuto ai nostri tempi un'isola di ergastolani, fu, nella storia di Roma, l'esilio e la tomba delle Imperatrici. — Raccòntami, — ella fece, tornando a guardare verso la raggiante isola. — La più bella Imperatrice di Roma, ed anche la più dissoluta fra le cortigiane, Giulia, figlia d'Augusto, vi è morta di fame. Agrippina d'esilio, e più tardi Nerone, invaghitosi di Poppea, vi rinchiuse la moglie Ottavia e la fece pugnalare, a vent'anni... — Che sorte! — profferì Elena, contemplando l'isola maledetta. — Immàgina, — esclamai, — immàgina l'agonia di quelle tre anime imperiali, quando, nell'ultima sera, videro forse, o credettero vedere, oltre i vapori del Tirreno, lo spettacolo di Roma signora del mondo, che celebrava le orgie de' suoi Cesari ed assisteva nei circhi ai combattimenti delle fiere, dimentica delle Imperatrici come di schiave barbare, mentre qui, davanti ai lor occhi, su quel terrazzo che tu vedi, l'ultimo sole incendiava i marmi del Tempio di Venere, splendeva sui mosaici del Tempio d'Augusto e raggiava su le pietre milliari della fatale via Appia, la via di Roma... — Che grande storia possiedono tutte le pietre del tuo paese! — ella esclamò, volgendo intorno lo sguardo un poco trasognato. La vecchia città vescovile ora si spiegava intera dinanzi a noi, sul pendio della montagna, mentre passavamo per la zona dei canali, attraverso una specie di villaggio primitivo, composto da un aggruppamento di catapecchie, ove in taluni mesi dell'anno scendono dal lor Abruzzo selvoso i contadini aquilani per intendere alle fatiche della terra. — Eccoci arrivati ormai, — dissi ad Elena, sorpassando gli ultimi abituri e toccando le prime case di Terracina. — Ti ricordi quando venimmo? — ella domandò con tenerezza. La guardai, sorrisi, e mi sentii felice. — Ecco, — ella riprese; — io mi ricordo ancora tutto, fin le più piccole cose. Le parole che mi dicesti alla stazione di Roma, il viaggio, le persone ch'erano con noi nel treno, dove scesero, e quando rimanemmo soli. Poi quello strano spettacolo delle paludi, la sera; l'arrivo, il chiasso dei vetturini per offrirci le loro vetture, e Lazzaro alla stazione, che mi guardò attonito. Indi la salita un po' lenta, per la strada oscura: il vetturino, che faceva schioccare la frusta emettendo un suo bizzarro grido per eccitare il cavallo, io che ridevo, tu anche. Poi quelle foreste paurose, quel magnifico lago, immobile sotto la luna, e più oltre i villaggi addormentati, senza una luce, senza un rumore, come in un paese di morti, con davanti la Montagna delle Fate, bianca, limpida, sola. E intorno, quel passare invisibile del vento nelle siepi, che dava una impressione singolare, come se alcuno ci venisse dietro, continuamente; io che mi stringevo contro di te, avevo quasi paura, e tu che mi baciavi, piano, perchè l'uomo non udisse.... Poi, d'improvviso, in alto, la torre di Torre Guelfa nel cielo, e finalmente l'ultima salita, il cancello, il giardino, la grande casa con le finestre illuminate, quella ragazza con un grembiule bianco, ferma su la scalinata, e poco dopo Lazzaro che sopraggiungeva coi nostri bauli.... Vedi come rammento bene? Io l'avvolsi d'uno sguardo innamorato e riconoscente. — Pare già così lontano, —

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Argomenti: grande casa,    palmo nudo,    feltro piumato,    veicolo troppo,    immenso carro

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